Il racconto della frontiera tra Polonia e Bielorussia. I burocrati di Minsk li illudono, l’esercito di Varsavia li respinge. E loro resistono nei boschi: «Abbiamo attraversato il confine senza acqua e con le piaghe ai piedi. Abbiamo creduto di morire»

«Skręć w lewo, a cel jest po lewej stronie». «Gira a sinistra e poi la tua meta si trova sulla destra», dice la voce del navigatore. Il problema è che la nostra meta è un punto indefinito della foresta tra i villaggi di Siemianówka e Olchówka. Siamo a poco più di un chilometro dal confine tra Polonia e Bielorussia e proprio qui sappiamo che è arrivata la segnalazione di un gruppo di migranti in difficoltà. Sono riusciti ad attraversare la frontiera e ora sono nascosti nei boschi polacchi. Fermiamo la macchina sul ciglio della strada, non resta che addentrarsi nella foresta. Nel silenzio più totale, c’è un contrasto forte che salta all’occhio: la magica cromia autunnale degli alberi è di una bellezza sconvolgente, ma è pochi metri più in basso, sul terreno gelido, che si consuma l’orrore dell’ennesima tragedia dei migranti. In fuga dalle guerre, ancora una volta bloccati e allontanati da un’Europa che si blinda, per di più armata di fucile. I volontari di Ocalenie Fundacja sono già arrivati sul posto e hanno distribuito acqua, qualcosa da mangiare ma soprattutto calzettoni e scarpe. Sedute per terra ci sono otto persone distrutte. «Siamo qui da quindici giorni e due dei ragazzi stanno male», dice Daud, sedici anni, arrivato dalla Somalia. Parla abbastanza bene inglese, tanto da riuscire a dire cosa è successo. E il racconto non sorprende nessuno dei presenti. «Abbiamo attraversato il confine guadando un fiume e giorno dopo giorno ci siamo avvicinati alla Polonia, ma molto lentamente, perché Rafiq ha le piaghe ai piedi», dice indicando l’amico accanto, «mentre Fatima ha crampi alla pancia. Dopo una settimana siamo rimasti senza acqua e abbiamo creduto di morire».

I volontari della Ong polacca hanno ricevuto la segnalazione della loro presenza in quel preciso punto della vegetazione da un numero sconosciuto. «Come siete arrivati in Bielorussia?». «Con l’aereo», risponde Daud. Hanno preso un volo diretto Istanbul-Minsk, perché il dittatore Alexander Lukashenko ad agosto ha aperto lo spazio aereo a Turchia, Egitto, Iraq e Siria. In pratica, per arrivare basta il visto turistico. Il gruppo di somali ha impiegato quattro giorni a piedi per arrivare dalla capitale bielorussa fino al confine. E lì hanno trovato i soldati. «Pensavamo che ci avrebbero messi in prigione, invece ci hanno indicato la strada», racconta Rafiq, 22 anni. L’esercito bielorusso invita i migranti a oltrepassare la frontiera, individua i varchi giusti, spiega loro che appena arrivati devono chiedere l’asilo politico a Varsavia. Glielo scrivono persino su dei fogli in inglese, così che li possano mostrare a chi eventualmente li ferma. «I migranti, poverini, pensano che sia la svolta e sono felici che i soldati siano così gentili. Invece lì scatta la trappola», racconta una delle soccorritrici di Ocalenie. Perché è vero, entrano in territorio polacco, ma vengono immediatamente respinti dalla polizia di frontiera.


Dal 2 settembre il governo di Varsavia ha proclamato lo stato d’emergenza in una fascia larga tre chilometri, anche se a volte diventano cinque. E in quest’area è come se ci fosse una guerra in corso. I diritti civili sono sospesi, ci sono posti di blocco a ogni villaggio e la polizia chiede a tutti dove stanno andando, perché, quando tornano, chiedono di aprire il bagagliaio e a volte aprono i sacchetti. Guai a fare una spesa più grossa, perché lì si accende il sospetto della polizia che si vada a rifocillare qualche migrante nascosto. E poi ci sono veicoli militari ovunque, compresi i droni in alto, che con il termo-scanner monitorano tutti i movimenti. A girovagare per queste zone, la tensione si avverte profonda. «Hanno bisogno di cure, li dobbiamo portare fuori di qui», dice la leader del gruppo di soccorritori. Così, i ragazzi vengono tirati su e accompagnati sulla radura dall’altro lato della strada, esattamente dove abbiamo lasciato la macchina. Nonostante ci sia il sole, fa molto freddo e ci si chiede come abbiano fatto questi ragazzi a resistere per quindici giorni senza morire assiderati. In effetti, molti migranti muoiono così. Sul prato una delle ragazze ha un collasso respiratorio e serve un’ambulanza che, effettivamente, arriva dopo meno di dieci minuti. «Però non è del servizio nazionale», mi dice una delle ragazze del gruppo. «Loro non sono voluti venire, perché ci hanno chiesto la posizione precisa e malgrado le spiegazioni hanno rifiutato l’intervento. Questi qui sono volontari e l’ambulanza è privata». Lo Stato polacco non vuole aiutare. È tutto in mano a cooperanti e Ong. Poco dopo arriva anche la guardia di frontiera. I militari bloccano la strada con la camionetta e, dopo aver fotografato le targhe delle macchine ferme lungo la strada, promettono ai volontari di Ocalene di portare i somali in un centro di accoglienza a Narewka. Nessuno si fida. Issati i migranti a bordo, il camion parte e noi decidiamo di seguirlo per vedere che strada prenderà. Se andrà a destra, i militari manterranno la promessa, se andrà a sinistra li staranno riportando oltre il confine. Procediamo velocemente, occhi puntati sul veicolo verde e poi all’improvviso la svolta, quella sbagliata. «Li stanno respingendo, tra pochi minuti saranno di nuovo in Bielorussia e ricomincerà il giro».

È un micidiale circolo vizioso, un giochetto malvagio che Bielorussia e Polonia fanno sulla pelle dei migranti. Lukashėnko apre loro le porte, i militari li accompagnano alla frontiera, la Polonia li respinge e loro si trovano in un limbo, senza poter andare né avanti né indietro. Restano bloccati lì a sperare, tentativo dopo tentativo, di arrivare da qualche parte per essere accolti e chiedere asilo. Nel frattempo restano nella foresta, senza cure, senza bere e mangiare, rischiano di morire di freddo. Ogni tanto qualcuno trova un corpo tra i cespugli e chiama la polizia ma la notizia non trapela e ufficialmente il governo ha dichiarato meno di dieci morti. In realtà sono molti di più.
«La Polonia non vuole fare la parte dell’aguzzino», spiega Franek Sterczewski, parlamentare polacco della coalizione civica Nowoczesna, durante un altro intervento di soccorso. «Il presidente Andrzej Duda scarica le responsabilità sulla Bielorussia, dice che non è un problema nostro, che non è una responsabilità della Polonia. Però blocca qualsiasi azione umanitaria ed è stupido, oltre che crudele». Sterczewski si oppone alla politica parlamentare e segue gli interventi di aiuto della Ocalenie Fundacja. «Voglio dimostrare all’Europa che c’è chi si oppone a tutto questo e che il problema va risolto a Bruxelles», spiega Sterczewski. Mentre parliamo, un gruppetto di donne sta portando tè bollente e coperte a una famiglia siriana che si è nascosta in un capanno. Siamo a Hajnówka, il confine bielorusso non è vicinissimo, quindi i siriani sono riusciti ad addentrarsi abbastanza, ma il loro viaggio si è bloccato qui. «La ragazza ha la gamba rotta, non sappiamo davvero come abbia fatto a non svenire per il dolore».

La soccorritrice ha chiamato l’ambulanza dell’ospedale locale e il medico che è arrivato è intervenuto anche sulla madre, ha i segni di un inizio di ipotermia. Intanto il padre e gli altri due figli vengono accuditi dalle signore. Quando al mattino li hanno notati dalla finestra, sono corse da loro e li hanno fatti entrare in casa per usare il bagno. Hanno provato tutti a tenere la notizia il più riservata possibile, ma anche questa volta la polizia di frontiera è arrivata senza pietà. «Non sappiamo se qualcuno li ha avvisati ma è molto più probabile che abbiano letto i nostri messaggi», dice una delle ragazze dall’associazione. I militari intercettano tutti i telefoni e con lo stato d’emergenza hanno la facoltà di spiare conversazioni private, mail e profili social. «Pazzesco», commenta una delle soccorritrici. In effetti è così. Quando gli uomini della famiglia vengono caricati sul camion, pronti per essere respinti oltre il confine, la tensione emotiva si fa più forte. Le signore raccolgono gli abiti bagnati che i siriani si sono tolti di dosso e in una delle tasche del giubbotto viene ritrovato un inalatore. «Portatelo al medico». Urlano. Così andiamo verso l’ambulanza che non è ancora partita. La ragazza con la gamba rotta dice che è di suo fratello e prova a farselo passare dallo spiraglio del finestrino ma il medico blocca tutti. «Potete anche buttarlo, tanto non si rivedranno più». La cattiveria è questa cosa qui: dividere le famiglie annunciandolo con una sentenza così stentorea e definitiva, priva di speranza. Una delle signore che li ha aiutati scoppia in lacrime e per calmare gli animi, andiamo tutti a casa a bere un caffè. «Non siamo d’accordo con le decisioni del governo, non ci voltiamo dall’altro lato», racconta Rafa, sorseggiando un tè. «Ci interroghiamo su cosa sia legale e cosa illegale, su quale sia il limite, ma certamente non chiuderemo le porte in faccia a nessuno. Noi siamo esseri umani e resistiamo di fronte a queste crudeltà», aggiunge Kasia. Resistenza. Assistenza. Il simbolo dell’accoglienza, in questa zona, è una luce verde alla finestra. Ormai è diventato il segnale per i migranti che quella è una casa sicura, dove possono nascondersi, o chiedere aiuto. La voce è passata velocemente di bocca in bocca e così ora la rete invisibile di soccorritori e aiutanti si palesa solo col buio.


Che qualcuno la chiami la “nuova resistenza polacca” lo capisco soprattutto a Bialowieza. La città è stata completamente blindata: è tutto chiuso tranne un B&B, un bar e un supermercato. Inoltre, nessun forestiero può entrare ma io riesco a passare il checkpoint con un inganno e il poliziotto clamorosamente crede alla mia bugia. Una volta dentro, l’impressione è quella di un paese fantasma. «Siamo come in guerra, c’è un clima di paura che è pesante da sopportare e abbiamo tutti gli occhi puntati addosso», racconta una delle abitanti. Bialowieza è l’ultima città polacca prima del confine bielorusso, sul lato nord-orientale, e si snoda per poche miglia lungo l’antica foresta vergine patrimonio dell’Unesco. Proprio qui il controllo dei militari di frontiera è serratissimo. «Nonostante questo, qualcuno riesce a passare e noi andiamo a soccorrerlo», racconta la residente. «Ormai siamo un gruppo organizzato, abbiamo una rete informale e siamo la resistenza a queste norme tremende imposte dal governo», aggiunge. In poche ore ho assistito a due respingimenti ma in un giorno ne avvengono a decine. E il ping pong di esseri umani va avanti ormai da agosto. Lukashenko vuol fare pressione sull’Europa, mettere in difficoltà il collega Duda, e intanto Bruxelles resta a guardare. Un po’ approva lo stato d’emergenza, un po’ si commuove per le condizioni dei migranti, ma intanto non cambia le politiche di accoglienza. Anche su questo fronte, esattamente come sulla rotta mediterranea e su quella dell’Egeo, l’Europa chiude gli occhi e scarica le responsabilità sugli altri. A morire sono sempre i più deboli.