Mentre il Paese affronta una crisi economica devastante, i Pandora Papers rivelano le ricchezze dei membri del nuovo governo. Intanto il costo del paniere alimentare di base di una famiglia è cinque volte il salario minimo nazionale

«Gli uomini le donne e i bambini chiedono giustizia, non accetteremo una volta ancora la vostra impunità». Questa la frase che campeggia su uno striscione di fronte alla porta 3 del Porto di Beirut. A srotolare lo striscione i parenti delle 215 vittime dell’esplosione del 4 agosto del 2020. Si ritrovano qui ogni 4 del mese, da quattordici mesi, a chiedere giustizia. A chiedere che i responsabili vengano indagati, processati e puniti. Che la morte dei loro cari non resti solo una commemorazione destinata a diventare col tempo l’ennesimo esercizio della memoria di un lutto, in un Paese che per decenni è stato attraversato da perdite e conflitti.


Ogni mese alle 18.07, nell’ora esatta in cui l’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio ha fatto tremare la città ormai più di un anno fa, i parenti delle vittime accendono le candele di fronte alle immagini delle persone amate che hanno perso. Un bambino di fronte all’immagine di un giovane uomo sorridente chiede: «Dov’è mio padre? Chi lo ha portato via?». Le immagini sono una mappa di età e confessioni. Donne, bambini, uomini, musulmani e cristiani. Musulmane e cristiane sono le donne che pregano insieme, tenendosi la mano in una fede che, per una volta, non ha barriere.


Hiyam al-Bikai stringe tra le mani la foto del suo unico figlio, Ahmad Kadaan, è morto a 23 anni, due mesi prima di sposarsi. «Oggi dovrei essere una nonna che visita suo figlio e i suoi nipoti e invece sono una madre che ogni giorno va al cimitero». Hiyam ha trasformato il dolore in battaglia. È la prima a sfidare la polizia durante le manifestazioni, è in prima fila di fronte al tribunale. Era lei a gridare la parola giustizia quando, per la seconda volta l’inchiesta sull’esplosione era stata sospesa. La prima volta era stato il turno del giudice Fadi Sawan, rimosso dall’incarico. Poi è toccato al giudice attuale, Tarek Bitar. Proprio la mattina del 4 ottobre, il giorno della commemorazione mensile, la corte d’Appello di Beirut ha respinto le richieste di rimozione di Bitar presentate dagli ex ministri e funzionari e addetti alla sicurezza indagati dallo stesso Bitar.

 


«Devono pagare per quello che hanno fatto, per tutto quello che hanno fatto, non solo per il porto, ma anche per aver rubato tutti i nostri soldi», dice Rima al-Zahid, il cui fratello era un impiegato portuale ed è morto nell’esplosione. «I documenti che mostrano l’esistenza delle loro società offshore sono la prova che quello che gridiamo da anni è vero: hanno rubato i nostri soldi, li hanno portati via i risparmi di un Paese intero e questa inchiesta ne è la dimostrazione».


Il 4 ottobre Beirut si è svegliata con le notizie dei Pandora Papers. I nomi ai vertici delle istituzioni sono tutti lì: l’attuale primo ministro Najib Mikati, il governatore della banca centrale Riad Salameh, l’ex primo ministro Hassan Diab, il potente banchiere Marwan Kheireddine, i loro parenti usati come prestanome. Una lista che ha il sapore della beffa nel Libano che vive non una crisi ma tante emergenze che si sommano, il collasso economico, la gestione di due milioni di sfollati in un Paese di quattro milioni di abitanti, l’instabilità politica, a cui si sono aggiunti gli effetti della pandemia e le tragiche conseguenze economiche dell’esplosione del 2020 che secondo la Banca Mondiale ha provocato dai 4 ai 4,5 miliardi di dollari di danni, in un Paese il cui il 90 per cento delle importazioni arrivava dal porto di Beirut.


La pubblicazione dei documenti sulle società offshore di politici, imprenditori e banchieri libanesi avviene durante la peggiore crisi economica mai vissuta dal Libano.


Dal 2019, la lira libanese, che la Banca Centrale mantiene al cambio ufficiale di 1.500 per dollaro Usa (entrambe le valute sono utilizzate in Libano), ha perso oltre il 90 per cento del suo valore di mercato, superando i 20.000 per dollaro in luglio, la maggior parte delle persone guadagna e spende nella valuta locale, il cui valore di mercato nero varia ogni giorno, mentre i prezzi del cibo sono aumentati del 400 per cento, nei settori commerciali il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 50 per cento e un milione di persone vive ormai in una condizione di insicurezza alimentare.

 


Secondo la banca Mondiale, quella libanese è la peggiore crisi economica al mondo dalla metà dell’800. Alla fine di settembre il tasso di inflazione annuale è salito al livello più alto di tutti i Paesi monitorati da Bloomberg superando lo Zimbabwe e il Venezuela.


L’indice dei prezzi al consumo è aumentato del 137,8 per cento rispetto a un anno fa.
Dopo l’esplosione, l’ex primo ministro Saad Hariri ha provato per diciotto volte a formare un governo, presentando diverse liste dei ministri al presidente Michel Aoun.
Tante le liste quante i rifiuti. Poi la rinuncia definitiva di Hariri.


Dentro i palazzi si spartiva il potere, fuori dai palazzi ci sono cinque cambi diversi: uno ufficiale con le vecchie riserve di dollari, uno ufficioso con i dollari fresh money che arrivano sui conti bancari libanesi e tre cambi diversi al mercato nero, uno per le medicine, uno per il carburante, uno per gli altri beni di consumo. Dentro i palazzi le liti per le assegnazioni dei ministeri chiave, fuori dai palazzi la fame.


Dopo dieci mesi è ora la volta di Najib Mikati, nominato lo scorso dieci settembre. Uomo d’affari, imprenditore delle telecomunicazioni, uno degli uomini più ricchi del Libano, secondo Forbes ha dalla sua un patrimonio di quasi tre miliardi di dollari. Nel 2019, mentre in strada scoppiavano le proteste, è stato accusato di corruzione per aver tratto profitto illegalmente da prestiti immobiliari destinati a famiglie a basso reddito.


Il caso, non sorprende, fu insabbiato.


Mikati viene da Tripoli, la città più povera del Paese, e anche questo dato è lo specchio delle contraddizioni libanesi, è già stato due volte primo ministro, l’ultima da giugno 2011 a maggio 2013. Fa parte di quella categoria di politici accusata dai manifestanti di essere la causa della rovina del Paese. E i Pandora Papers lo dimostrano, rivelando che ha ricchezze nascoste in paradisi fiscali offshore, in un momento in cui la gente comune libanese non può accedere ai propri risparmi bancari.


Eppure un governo era necessario, perché al governo sono vincolati gli aiuti esteri. Senza un governo in funzione non arrivano i soldi e il Libano ha un debito di 90 miliardi di dollari.


Il Libano ha chiesto aiuto al Fondo monetario internazionale, agli Stati Uniti e alla Francia ma gli aiuti sono condizionati all’adozione di misure di trasparenza e a un governo efficiente. Difficile che lo sia quello di Mikati. Più facile che rappresenti una momentanea cosmesi, che continui a garantire il vecchio sistema di potere per condurre il Paese alle elezioni del prossimo maggio, ammesso che non vengano rinviate. Ma la grande domanda che i cittadini si fanno è: come possono coloro che hanno causato i problemi, che hanno sottratto risparmi ai cittadini, che hanno distrutto il valore della moneta e messo in ginocchio l’economia, proporsi come la soluzione?


Il racconto della crisi libanese è un racconto di disuguaglianze. Il racconto di una città che sono due. Quella dell’opulenza, e quella della gente comune, che non ha elettricità e mangia una volta al giorno.


È in quartieri come Bourj Hammoud e Nabaa che la distanza tra questi due mondi è radicale.


Nabaa è un quartiere popoloso nella parte orientale di Beirut, è un quartiere misto, ha una storia di convivenza e accoglienza di rifugiati nei momenti di bisogno, ci vivono armeni, palestinesi, iracheni e siriani fuggiti dalla guerra.


Decine i negozi che hanno chiuso, botteghe, negozi alimentari. Panetterie. Quella di Abu Ali resiste «ma ancora per poco», dice l’uomo, 63 anni, prima di infornare il pane. Prepara i man’touch con lo zaatar, il tradizionale pane con un misto di erbe e spezie. L’odore invade il piccolo spaccio. Ad aspettare i man’touch un gruppo di bambini che contano le lire, ma non ne hanno abbastanza: «È così ogni giorno, abbiamo smesso di comprare carne e verdura, presto la gente smetterà anche di comprare il pane».


Molte panetterie hanno chiuso a Nabaa perché i negozianti non possono permettersi il diesel per alimentare i generatori di corrente privati e le interruzioni di elettricità, in quartieri come questo, possono arrivare a 21 ore al giorno. Quelli che rimangono aperti provano a sopravvivere.

 


Per decenni, il Libano ha fatto affidamento sulle importazioni di beni essenziali come il carburante, le medicine e il cibo, beni che fino allo scorso luglio beneficiavano di sussidi. Per affrontare la carenza di dollari tre mesi fa il governo ha ridotto i sussidi per alcuni beni, e il costo di prodotti di base come riso e fagioli è più che raddoppiato. Secondo un rapporto dello scorso luglio dell’Osservatorio di crisi del Libano presso l’Università americana di Beirut (AuB) il costo del paniere alimentare di base di una famiglia era cinque volte il salario minimo nazionale, che ammonta a 675.000 lire libanesi al mese, che prima valevano 450 dollari al cambio ufficiale e oggi valgono 45 dollari al mercato nero.


Sulla stessa via della panetteria di Abu Ali, Alexander, 50 anni, vende prodotti per l’igiene personale. Almeno, li vendeva prima della crisi. Oggi nel suo negozio non entra più nessuno: «Mangiare si deve mangiare per forza, se c’è una cosa che facilmente si può sacrificare sono i detersivi e la carta igienica».


Gli scaffali della sua bottega sono pieni e impolverati e raccontano la fluida realtà di un Paese in cui fino a pochi mesi fa, finché c’erano i sussidi, gli scaffali erano vuoti. Oggi che i sussidi non ci sono più e il valore della lira continua a precipitare, gli scaffali sono pieni perché nessuno può più permettersi nemmeno uno shampoo. Alexander ha due figli e spera, come molti padri, che riescano a lasciare il Paese. Anche loro, come altre seimila persone al giorno, hanno chiesto il passaporto agli uffici della Sicurezza generale. Erano in piazza anche loro due anni fa: «La rivoluzione del 17 ottobre la chiamavano». Usa l’imperfetto, Alexander, perché di quella rabbia, di quella richiesta di giustizia sociale, oggi, resta solo la voglia di scappare. Il 70 per cento dei giovani libanesi vuole lasciare il Paese. Quelli che riusciranno si andranno ad aggiungere ai milioni delle diaspore precedenti, quella della guerra civile conclusasi nel 1990 e quello della guerra con Israele del 2006, diaspore che hanno portato la popolazione libanese fuori dal Paese a essere tre volte superiore a quella interna: quindici milioni. «Magari dall’estero manderanno un po’ di soldi e medicine», dice Alexander, che ha ancora tremila dollari di risparmi in banca, ma può prelevarli solo in lire e il loro valore è precipitato. Gli servono per comprare le medicine a suo padre che soffre di ipertensione, ma nemmeno quelle si trovano più. Nelle farmacie, mancano medicinali generici come il paracetamolo e i pochi che ci sono vengono venduti in pillole e non a scatole. «Quando sono esauriti nelle farmacie, puoi stare sicuro di trovarle al mercato nero», dice Alexander che ha pagato una scatola di medicine per suo padre a 50 dollari, il corrispettivo di uno stipendio medio locale.


Nemmeno gli ospedali funzionano a pieno regime da mesi lavorano al 50 per cento della capacità, secondo l’Oms il 40 per cento dei medici e il 30 per cento degli infermieri hanno lasciato il Paese in modo permanente o temporaneo.


È al buio anche il suo negozio, non c’è elettricità ed è inutile comprare carburante e far funzionare il generatore in un negozio in cui non entra più nessuno. Bussano solo le madri che hanno bisogno di pannolini e assorbenti. Costano venti volte più dell’anno scorso. E Alexander regala sia i pannolini che gli assorbenti: «Un giorno Dio se ne ricorderà. Ma non farti ingannare da quartieri come questo, Beirut è sempre doppia, da una parte la gente che ha bisogno di tutto, dall’altra la gente che può ancora permettersi tutto», dice, prima di abbassare la serranda e andare a casa.


Lungo le curve che portano a Rouche con i suoi hotel di lusso e i ristoranti sul mare le luci sono tutte accese, nelle abitazioni lungo la corniche l’elettricità non manca, le famiglie passeggiano e i giovani della Beirut privilegiata, scendono dai loro Suv per entrare nelle discoteche e nei locali intorno all’hotel Phoenicia.


Roukoz Alam, che gestisce un ristorante lungo la costa, dice che gli affari non sono andati mai tanto bene come la scorsa estate: «Qui da noi i prezzi erano stracciati per la crisi, non ho mai visto tanti turisti come quest’anno, libanesi che tornavano dall’estero soprattutto».


I locali come il suo, come gli hotel lungo la costa, accettano solo pagamenti in dollari, il costo di una stanza per notte equivale a due stipendi mensili di un cittadino libanese.


Lontano dal lungomare, i quartieri che fino a un anno fa brulicavano di giovani sono spenti. È spenta la zona intorno a piazza dei Martiri, è spenta Hamra.


È la crisi intermittente di Beirut. Da una parte la luce, accesa, dei pochi a cui la vita non è cambiata, delle società offshore, dall’altra le finestre buie, la luce spenta, del novanta per cento della popolazione che non riesce a mettere insieme il pranzo e la cena.