Emarginati, incarcerati, condannati a morte. Nel continente con la popolazione più giovane resiste una cultura antica, eredità dell'epoca coloniale. E in Kenya il film "Rafiki", in concorso a Cannes, è stato bandito perché «promuove il lesbismo»

Kena e Ziki sono due adolescenti, vivono in un villaggio di provincia e i loro rispettivi padri sono entrati in competizione per un posto nell'assemblea della contea. Si conoscono, diventano amiche e, nel giro di poco, si innamorano. Nulla di male, se non fosse che sono nate in Kenya, Paese che vieta per legge le unioni omosessuali e che arriva a punire «le conoscenze carnali contro l'ordine della natura» fino a un massimo di 14 anni di reclusione.

Su questo amore proibito si gioca la storia di “Rafiki” (amica, in lingua swahili), secondo lungometraggio della regista keniana Wanuri Kahi. Il film è piaciuto alla giuria del Festival di Cannes, che lo ha ammesso a partecipare all'edizione 2018 nella sezione “Un Certain Regard”. Sulla carta un successo per tutto il Kenya, che per la prima volta è in concorso alla prestigiosa rassegna della Costa Azzurra. E invece a Nairobi non hanno gradito, tanto che la commissione apposita ha deciso di vietare la sua proiezione in tutto il Kenya, perché «promuove il lesbismo e va contro i valori del Paese».

Valori impregnati di cultura cristiana: nel 2012 la comunità quacchera, una delle più numerose al mondo, ha pubblicato un comunicato nel quale dichiarava che «l'omosessualità è un peccato» e che «Dio ha proibito l'omosessualità in quanto perversione sessuale che non può essere tollerata». Un'omofobia che ha portato due ospiti della televisioni keniana, invitati a discutere sul divieto di proiezione di “Rafiki”, a non pronunciare mai le parole “gay” e “omosessuale” durante il dibattito.

Ma il Kenya non è certo da solo in questa strenua difesa delle “virtù morali tradizionali”: 34 Stati africani su 56 considerano illegali le unioni tra due persone delle stesso sesso. In nove di questi il divieto di matrimonio tra persone omosessuali è stato inserito nella Costituzione. In Sudan, Mauritania e in alcune regioni della Nigeria e della Somalia, la punizione prevista è la pena di morte.

Una mentalità che ha messo in difficoltà anche Binyavanga Wainaina, scrittore e giornalista, vincitore del Premio Caine per la letteratura africana. Nel 2014 l'autore ha dichiarato pubblicamente di essere gay e ha attaccato le tante leggi che in Africa puniscono gli omosessuali. In risposta, critiche e insulti da parte dei suoi connazionali.

Ma Wainaina non si è lasciato scoraggiare e due settimane fa ha annunciato sul suo profilo Twitter che si sposerà con il compagno nigeriano in Sud Africa, unico stato del Continente ad aver legalizzato i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Nonostante timide congratulazioni, la maggior parte dei follower non hanno accolto la notizia con gioia. Scrive Lucas: «Spero potrò capirlo un giorno. Non ci sono animali gay, ma abbiamo esseri umani gay». Aggiunge, tra l'ironico e l'offensivo, un altro utente: «Wow, presto i tuoi genitori avranno dei nipoti. Non vedo l'ora di sentirti urlare in sala parto». E poi battute di bassa lega, fotomontaggi, allusioni.

Da anni gli attivisti accusano il governo del presidente Kenyatta di discriminazioni e repressione nei confronti della comunità LGBT, nonostante la Costituzione approvata nel 2010 garantisca libertà di espressione a tutti i cittadini. Qualche settimana fa Kenyatta ha ribadito che «i diritti dei gay non ci importano e non sono un problema». Dopo appelli e battaglie cadute nel vuoto, però, a marzo la Corte d'Appello keniana ha ribaltato una precedente sentenza stabilendo che le ispezioni anali nei confronti delle persone accusate di omosessualità sono illegali. Una piccola vittoria in un'Africa che fatica a cancellare leggi e tradizioni del suo passato coloniale.