La lady di latta doveva condurre il Paese verso la Brexit. Ma l'accordo sul negaziato scontenta tutti e troppe cose restano da definire

«Che nessuno dubiti della nostra determinazione o della nostra risolutezza: la Brexit sta avvenendo...». Così parlava ancora un anno fa Theresa May, convinta di poter tranquillamente timonare il Regno Unito verso il risultato prodotto dal referendum del 2016.

Invece, è stata proprio la scarsa determinazione e l’irresolutezza a segnare tutto il suo percorso successivo. Ad esempio, lunedì 10 dicembre la leader dei conservatori ha annunciato un sorprendente dietrofront: dopo che per giorni i suoi parlamentari avevano assicurato di non voler mettere in discussione l’accordo negoziato con Bruxelles - definito «l’unico possibile» - May ha fatto intendere l’esatto contrario. Così com’è, ha spiegato alla Camera dei Comuni, «l’accordo sarebbe respinto da un margine significativo» di parlamentari.

La premier ha dunque rinviato a data da destinarsi il voto di Westminster sull’uscita del Regno Unito dall’Ue, esponendosi così alla mozione di sfiducia su lei stessa. In altre parole, May è dovuta capitolare proponendo di modificare un testo che lei stessa aveva definito non modificabile. Ostaggio della piazza e della sua stessa maggioranza, visto che una nutrita schiera di parlamentari conservatori era orientata a bocciare l’accordo.

Il punto dirimente è e resta il confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, membro della Ue che dunque con Brexit dovrebbe venire separata dal resto del Regno Unito per impedire che merci e persone continuino a circolare liberamente.

Per evitare di creare una “frontiera rigida” tra i due Paesi, mettendo a rischio vent’anni di pace frutto del cosiddetto Accordo del Venerdì Santo (1998), Londra e Bruxelles hanno abbozzato l’idea di un confine controllato solo grazie alla tecnologia. Peccato che una soluzione del genere non è stata applicata finora in alcun luogo al mondo. Per di più, senza una barriera fisica il rischio è quello di spostare la dogana più in là, sul Canale di San Giorgio, tra l’Irlanda del Nord e il resto della Gran Bretagna.

Da qui le critiche feroci alla May, accusata dalla sua maggioranza di mettere a rischio l’unità del Regno, visto che alla fine Belfast potrebbe ritrovarsi più vicina a Dublino che a Londra. L’accordo con Bruxelles prevede infatti che l’Irlanda del Nord resti nell’unione doganale europea a tempo indefinito, fino a quando non verrà trovata una soluzione alternativa.

Come uscirne?

Subito dopo l’annuncio del rinvio del voto a Westminster, i rappresentanti Ue si sono mostrati inflessibili. «L’accordo non verrà rinegoziato», ha scritto Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, «nemmeno per quanto riguarda il confine irlandese». Poi Tusk ha lasciato uno spiraglio: «Siamo pronti a discutere su come facilitare la ratifica dell’accordo da parte del Regno Unito».

La partita Brexit è dunque ancora aperta, e come in ogni negoziazione gli sfidanti tengono le carte coperte per non fornire vantaggi all’avversario. Di certo Londra crede di poter ottenere qualche concessione da Bruxelles. Anche perché l’alternativa è una no-deal Brexit, un’uscita netta, senza compromessi. Scenario che causerebbe un calo dell’8 per cento del pil britannico nel primo anno, ha previsto la Banca d’Inghilterra. Con riverberi nel resto del continente: secondo il Fondo monetario internazionale, se Londra uscisse dall’unione doganale i Paesi Ue subirebbero una diminuzione complessiva del pil dell’1,5 per cento entro il 2030. Una lose-lose situation, in cui a perderci sarebbero quindi un po’ tutti. Inclusi i conservatori, che potrebbero dover lasciare il governo ai laburisti di Jeremy Corbyn.