Nonostante tutte le sue contraddizioni, il presidente non ha perso il sostegno di quella parte (seppure minoritaria) dell’elettorato che l’aveva votato un anno fa: ed è questa ?la sua vera grande forza. E solo il suo vice Mike Pence può dichiararlo pazzo

Un Congresso a maggioranza repubblicana che vota spesso e volentieri contro il suo presidente, un partito di governo (il Grand Old Party) dilaniato, quello democratico quasi inesistente, il ruolo dell’apparato di sicurezza diviso tra militari al governo ?e Intelligence all’opposizione. ?Nel primo anniversario del trionfo elettorale di Donald Trump (8 novembre 2016) la vita politica degli Stati Uniti ?è stata sicuramente stravolta, ma fino ?a quale livello è difficile da determinare.

È da più di un decennio che l’America ?è una nazione fortemente divisa. Un fenomeno iniziato durante la presidenza di George W. Bush (e la guerra all’Iraq) e peggiorato rapidamente negli anni di Obama (con l’aggravante del razzismo), ma solo da dieci mesi - con l’arrivo di The Donald alla Casa Bianca - ha raggiunto vette così inaspettate da far gridare a diverse Cassandre come in pericolo sia l’essenza stessa della vita democratica negli Usa.

Nonostante i molti allarmi le regole basilari di una delle democrazie più consolidate (e nel mondo di oggi la più importante) non sono messe in discussione. Le divisioni tra repubblicani e democratici su valori politici fondamentali (governo, immigrazione, sicurezza nazionale, ambiente) e su questioni morali, culturali, religiose e di razza, sono certamente peggiorate in questi primi dieci mesi di presidenza Trump, ma il vero risultato ottenuto dall’ineffabile Commander in Chief-Tycoon è quello di aver rimescolato (e di rimescolare ogni giorno) le carte, spiazzando amici ?e nemici, alleati e avversari. Per la gioia di quel “popolo di Trump” che si sente finalmente rappresentato.

Mentre i suoi elettori (nel novembre 2016 erano quasi 63 milioni e non sono poi molti quelli che ha perso per strada) lo appoggiano in modo fideistico, pronti anche a negare l’evidenza in nome di quell’America First favoleggiata dal loro leader, The Donald continua ad essere un enigma per l’establishment (politico, mediatico e culturale) che lo combatte dal giorno della sua elezione, dopo averlo schernito anzitempo durante ?la lunga campagna elettorale (primarie comprese). Anche per gli analisti più accorti dei grandi quotidiani e magazine (Washington Post, New York Times, New Yorker, The Atlantic) che lo osteggiano - e che sono stati rivitalizzati, con un boom di vendite e abbonamenti anche tra i millennials - il presidente ?è un animale politicamente ?poco identificabile.

Lo è per la sua storia personale: è digiuno di qualsiasi esperienza politica, è stato negli anni Novanta un finanziatore di candidati democratici (Bill e Hillary Clinton compresi), è un corpo estraneo al suo stesso partito (il Grand Old Party ha tentato in ogni modo di bloccare la sua candidatura), non ha alcuna sintonia con l’etica pubblica ?e istituzionale (che disprezza apertamente). Lo è per quanto accaduto in questi primi dieci mesi: non ha avuto la tradizionale “luna di miele” con il paese che nel primo semestre di ogni presidenza è automatica, ha dovuto cambiare in modo quasi compulsivo gli esponenti del suo governo e i suoi principali consiglieri travolti da scandali (politici o personali) grandi e piccoli, si è dovuto rifugiare (e poi affidare quasi in toto) nelle braccia dei militari, ex generali od ufficiali ancora in carriera, si è inimicato il mondo dell’intelligence.

L’America che conta, l’America dei vari establishment (partiti, media, grandi società digitali, università), lo detesta e vorrebbe detronizzarlo al più presto, ma mentre si appresta a festeggiare lontano da casa il primo anniversario elettorale (l’8 novembre sarà a Pechino, in casa del grande nemico cinese) ?The Donald può già brindare agli inarrestabili successi di Wall Street (in questi dodici mesi il Dow Jones è salito del 29 per cento, battendo 67 volte il record) e al modo in cui ha stravolto la tradizionale politica “made in Usa”.

Riuscirà a finire il suo mandato? Tony Schwartz, “ghostwriter” di Trump negli anni Ottanta (fu co-autore insieme ?al presidente del libro “The Art ?of the Deal”) e poi suo feroce critico è convinto da agosto che The Donald non finirà questo 2017 alla Casa Bianca. «Lo credo ancora oggi, a un anno dalle elezioni e prego perché questo accada: darà le dimissioni per evitare umiliazioni peggiori, come l’essere messo sotto accusa dal procuratore speciale ?Robert Mueller o essere rimosso con ?il 25esimo emendamento».

Anche Steve Bannon ha messo in guardia il presidente contro il rischio concreto di dover lasciare la Casa Bianca in anticipo («Ci sono il 30 per cento di probabilità che riesca a finire? i quattro anni del mandato»). Non ?con una procedura di impeachment (impossibile fino a quando non cambieranno radicalmente i rapporti di forza al Congresso) ma per via proprio del 25esimo emendamento: «Qualora ?il vicepresidente insieme alla maggioranza dell’esecutivo inviasse una dichiarazione scritta a Senato ?e Camera, in cui si dichiara che il presidente non è in grado di esercitare ?i poteri e i doveri del suo ufficio, ?il vice-presidente assumerebbe l’incarico di presidente».

Al momento il vicepresidente Mike Pence si è dimostrato piuttosto leale ?(e anche un po’ succube) nei confronti di The Donald, ma nei palazzi di Washington non è un mistero che i vertici repubblicani e i grandi finanziatori del Grand Old Party stiano lavorando ?da tempo sotto-traccia per convincere Pence e la maggioranza dei ministri che è il momento di mettere la parola fine ?al mandato del presidente-tycoon. Ed ?è sempre più citato il paragone (oltre ?a quelli più scontati con Berlusconi, Menem e via dicendo) tra The Donald e il kaiser Guglielmo II, ultimo imperatore tedesco e ultimo re di Prussia, costretto ad abdicare nel novembre 1918. Paragone rilanciato anche da una rivista di studi molto seria come Foreign Policy che ricorda le cose in comune tra la Germania di allora e gli Stati Uniti di oggi: grande influenza dei militari, abbandono della diplomazia, rabbia e populismo. Nonostante tutte le sue contraddizioni, Trump non ha però perso il sostegno di quella parte (seppure minoritaria) dell’elettorato che l’aveva votato un anno fa: ed è questa ?la sua vera grande forza.