Il premier Davuto?lu dà mandato all'esercito di continuare le operazioni militari nel Sud Est del paese; conflitti e barricate che in pochi giorni hanno già portato all'uccisione di residenti. Il partito armato del Kurdistan risponde con il fuoco. E il paese si avvita nel conflitto. Mentre la repressione colpisce stampa e nemici interni

È finita ogni tregua, se mai c'era stata. La Turchia torna a essere in conflitto. E non contro l'Isis, la minaccia globale che spinge alle porte da Siria e Iraq. No, la guerra è in casa. Mossa dal partito di governo contro i nemici nazionali di Tayyp Erdogan: l'opposizione religiosa del leader islamico Fethullah Gülen e la resistenza curda nelle regione del Sud Est. Ai nuovi coprifuoco è arrivata presto la risposta del Pkk, il partito curdo dei lavoratori che resiste armato nelle montagne al confine meridionale: giovedì ha dichiarato la fine del cessate il fuoco unilaterale aperto il 10 ottobre dopo le bombe di Ankara. La fragile tregua elettorale è finita. Torna la paura. Ricominciano i morti.

Così la democrazia turca applaudita dalle autorità europee, guidata dal premier Ahmet Davuto?lu con una maggioranza del 49,4 per cento dopo le elezioni del primo novembre, scatena la forza. Come temuto dalla popolazione della capitale del Kurdistan turco, Diyarbakir, sono dovute passare solo poche ore dal conteggio dei risultati perché tornasse il caos. Il governo ha dichiarato il coprifuoco a Silvan e nel distretto di Hakkari e Yusekova. Nella prima cittadina sono morti in tre giorni quattro civili, fra cui un ragazzo di 22 anni di cui su Twitter ricordano il sorriso. I sogni strappati. Nella città è morto anche un poliziotto.


Le vittime non hanno fermato l'avanzata dei carri armati. Anzi. In un meeting sui problemi di sicurezza il premier Davuto?lu ha dato mandato all'esercito di continuare le operazioni per tutto l'inverno. I mezzi pesanti aumentano all'uscita dei villaggi del Sud Est, continuamente sorvolati da elicotteri. Le comunicazioni spesso sono bloccate, come alcune strade. Nello stesso comunicato il governo vanta l'uccisione di 15 militari del partito armato curdo. Il Pkk invece, attraverso un'agenzia di stampa vicina alle sue posizioni, dichiara di aver ucciso 15 soldati a Oremar, mentre le operazioni contro le sue basi sarebbero aumentate.

La guerra in casa si sposta infatti continuamente anche al di là del confine. Da luglio l'aviazione turca bombarda le posizioni delle Ypg, le forze armate curde che hanno riconquistato Kobane al Califfato in una delle poche operazioni di successo contro l'Isis. Ma la spinta politica delle Ypg, che subito hanno dichiarato la zona del Kurdistan siriano liberata una regione autonoma – il Rojavagestita attraverso assemblee e democrazia diretta, non è piaciuta ad Ankara. Che ha fatto dell'unica barriera contro al-Baghdadi uno dei suoi obiettivi. E oggi tutti i quotidiani turchi riprendono la risposta di un ufficiale americano in Iraq secondo cui anche gli alleati Statunitensi non starebbero più fornendo aiuti militari alle Ypg. L'instabilità si avvicina così al fronte fragile che teneva a distanza i miliziani fondamentalisti.


Ma l'Akp di Erdogan è preoccupato anche da un altro “nemico” molto più interno, stabile a Istanbul come nella capitale: l'islam professato da Fethullah Gülen, accusato, anche lui (uno scrittore e guida spirituale in esilio negli Stati Uniti) di essere un terrorista a capo di un'organizzazione orientata a destabilizzare il paese. Con l'accusa di sostenere Gülen è stata occupata e chiusa, pochi giorni prima delle elezioni, la sede dei canali televisivi del gruppo Koza Ipek's. I direttori licenziati. I poliziotti hanno impedito la messa in onda, picchiato alcuni giornalisti, mentre un tribunale, sulla base di un rapporto dalla validità molto discussa, ha fatto saltare il consiglio di amministrazione imponendo membri vicini all'Akp.

Subito dopo il voto due capo redattori di un'altra testata, Nokta, sono stati arrestati, il loro sito bloccato in Turchia, l'accusa è ancora una volta di propaganda terroristica. Il comitato internazionale per i giornalisti ha condannato duramente i fermi, ricordando anche la continua detenzione ingiustificata di Mohammed Ismael Rasool, il collaboratore di Vice News arrestato il 27 agosto. Ma i licenziamenti e le operazioni contro i simpatizzanti di una matrice diversa dell'Islam sono continuate oltre la repressione della libertà di espressione e sconfinate negli altri apparati di potere: poliziotti che indagavano sui casi di corruzione che lambiscono la famiglia presidenziale sospesi, lo stesso nelle corti di giustizia.


Per i giornali vicini al presidente il problema resta però uno solo: i media internazionali. Che osano ancora criticare l'Akp nonostante il grande risultato popolare del primo novembre, riconosciuto anche dalla Commissione Europea. Anche sull'esito delle urne restano però pesanti ombre. Dalle operazioni di propaganda a quelle più schiette di libertà di voto: nel piccolo paese di Aygun, visitato da l'Espresso il primo novembre, il seggio era militarizzato dall'esercito e da uomini in abiti civili armati di Kalashnikov a tracolla, “guardie del villaggio” pagate dallo Stato. Il risultato? Su 850 elettori solo 330 hanno votato. E quasi 300, guarda un po', per l'Akp.