Migliaia di feriti fra miliziani della causa curda e ufficiali dell'esercito. Ma soprattutto fra i civili: bambini, ragazzi e famiglie. La strage di Ankara è l'ultimo sanguinoso episodio di una stagione di tensione. Verso le elezioni del primo novembre

Sono bombe. E cecchini. E attentati. Sono morti – almeno 279 civili uccisi solo negli ultimi tre mesi; duemila i “ribelli” ammazzati - secondo il governo - da luglio a settembre; 130 gli ufficiali dell'Esercito. Sono feriti: migliaia, impossibile mantenere una traccia ufficiale. Sono terrore e media zittiti.

Sono, è, la non-ancora guerra civile fra la Turchia di Tayyip Erdo?an e i sostenitori della causa curda. Un conflitto riesploso dopo due anni di tregua fra Stato e Pkk (il partito dei lavoratori curdi considerato organizzazione terroristica) e ogni giorno più cupo, con il governo schieratosi tardivamente contro il Califfato che colpisce il Kurdistan e i suoi combattenti dopo tre anni in cui si erano fatti baluardo dell'Occidente contro l'avanzata dell'Is. E ora sono le bombe, gli attentati, i coprifuoco, e i morti innocenti.

Dopo la tornata elettorale del 7 giugno, in cui il Partito democratico dei popoli (Hdp) di Selahattin Demirta?, filocurdo, aveva conquistato un imprevedibile 13 per cento di consensi, allargando la propria base alla gioventù progressista urbana, l'escalation di violenza prevista da alcuni analisti si è pienamente verificata. Nei peggiori auspici.

Le bombe che il 10 ottobre hanno strappato la vita a 100 innocenti che marciavano per la pace ad Ankara (97 i morti secondo il ministero, 128 secondo l'Hdp), ferendone oltre 500, sono solo l'ultimo sanguinoso episodio di una stagione di tensione i cui mandanti reali restano nell'ombra, fra la base popolare che accusa l'Akp di Erdogan e il governo che indica gli unici responsabili nell'Is. Di fatto, le due bombe hanno ucciso manifestanti pacifici proprio nel giorno in cui il Pkk aveva appena annunciato un cessate il fuoco unilaterale ai suoi militanti.

Le due esplosioni - opera di kamikaze, secondo le prime ricostruzioni – seguono da vicino (forse con gli stessi esecutori materiali) quella che il 20 luglio aveva ammazzato 33 ragazzi riuniti a Suruç, vicino al confine siriano, per aiutare alla ricostruzione di Kobane. Giovani della federazione socialista uccisi mentre pranzavano in un centro culturale. Le immagini, come quelle di Ankara, scossero il mondo.

E quell'esplosione era a sua volta il “sequel” di un altro attentato che aveva ucciso cinque persone e ne aveva ferite 400 a un comizio dell'Hdp a Diyarbakir il cinque giugno, poco prima delle elezioni, proprio nel momento in cui Demirtas si stava preparando ad entrare per il suo discorso.

Le bombe sono la parte più rumorosa, più omicida, di un conflitto che ha però molti volti e ancora nessuna indagine indipendente capace di stabilire chi siano i mandanti e gli esecutori delle stragi. In una tensione che ha come obiettivo principale sempre i curdi. E chi li sostiene.

L'Hdp, in una nota diffusa in questi giorni, fa il conto di 150 sedi attaccate negli ultimi mesi. Nelle città al confine con l'Iraq e la Siria i coprifuoco indetti dalla polizia si alternano a lacrimogeni e scontri. Alcuni quartieri, controllati da miliziani curdi, vengono difesi da barricate contro la polizia. A Cizre, nella provincia di Sirnak, l'esercito è arrivato a schierare i cecchini fra le case per uccidere i miliziani che autogestivano interi quartieri.

Le vittime principali sono state come sempre i civili: 21 quelle accertate in nove giorni di coprifuoco a Cizre, fra cui molti bambini. Testimoni sul campo, ascoltati dalle agenzie locali di stampa, hanno raccontato come la polizia avesse bloccato anche l'uscita per raggiungere l'ospedale e salvare i feriti. Ad Avasin una casa è stata bombardata, uccidendo una bimba di 8 anni e ferendo tutta la sua famiglia.

Ieri, ad Amed, era presente una carovana di attivisti e artisti italiani, a cui partecipa anche il fumettista Zerocalcare: «Alle 17.57», raccontano sul blog dell'iniziativa - RojavaResiste - : «sentiamo esplosioni e vediamo il fumo dei lacrimogeni salire in cielo. A pochi minuti dall’avvio del coprifuoco la polizia attua un’azione per disperdere gli ultimi assembramenti, sparando colpi d’arma da fuoco in aria, mentre un toma (mezzo corazzato della polizia turca, dotato di idrante) illumina gli angoli delle strade e sposta barricate improvvisate.

Nel distretto di Sur, dopo la strage di Ankara, il coprifuoco si è trasformato in scontri, con la polizia che, secondo la Cnn turca, avrebbe attaccato i manifestanti con idranti e spray al peperoncino. Due bambine di tre e di nove anni, riferisce l'Hdp, sono morte nella notte, colpite da proiettili.


Il video girato il tre ottobre che mostra il corpo di un ragazzo curdo di 28 anni, Haci Osman Birlik, ucciso nella città di Sirnak e quindi trascinato da un furgoncino dell'esercito per strada, trascinato come il corpo di Ettore, sfregiato, dopo esser stato colpito da 28 colpi d'arma da fuoco, aveva scatenato l'indignazione dei media. Demirtas aveva chiesto le dimissioni del ministro degli Interni turco. Oggi è arrivato il licenziamento dei due poliziotti ritenuti responsabili del gesto. L'accusa è di tortura.

È in questo clima che si avvicinano le elezioni attese per il primo novembre. Erdogan avrebbe voluto spostare i seggi dai territori curdi “per ragioni di sicurezza”. Ma questo avrebbe impedito a troppe persone di andare a votare (in alcune città di confine l'Hdp ha preso l'80 per cento dei voti) e la proposta è rientrata.

Resta però la tensione sulla certezza che la popolazione abbia la possibilità di votare in pace. Dopo le bombe di Ankara, il Pkk ha confermato il cessate il fuoco. Le principali sigle sindacali turche hanno indetto lo sciopero generale. Anche in Italia ci saranno manifestazioni di solidarietà nei prossimi giorni.

Ma oltre alla paura e al sangue ancora sulle strade, sul voto e sul racconto di quello che sta succedendo in Turchia incombe anche la repressione dei media. Secondo il “Network di solidarietà contro la censura” gli attacchi alla stampa, censure, arresti, sono sempre più frequenti. Nell'ultimo periodo 35 giornalisti sono stati messi sotto custodia. I media nazionali hanno dovuto censurare le immagini delle vittime di Ankara per non “aiutare il terrorismo”.

Reporter indipendenti raccontano di botte, minacce e pressioni. Raccontare ciò che accade in Kurdistan e nel resto del paese è sempre più difficile. Anche con i social network: più volte, negli ultimi giorni, mentre i ragazzi si organizzavano per marciare contro le bombe di Ankara, Twitter è stato sospeso.