A fine mese arriva alla Camera la legge che riconosce la cittadinanza a chi ha studiato in Italia. Diritto negato a un milione di minorenni nati o cresciuti nel nostro Paese. Ma ci sono 480 emendamenti che la mettono a rischio

In Italia la prossemica della politica parla di più delle dichiarazioni ufficiali. Lo scorso febbraio, per esempio, le calorose ovazioni dell’emiciclo di Montecitorio ai ringraziamenti nel discorso d’insediamento del presidente della Repubblica hanno lasciato il posto al silenzio quando Sergio Mattarella ha omaggiato le comunità straniere presenti Italia: «La loro affezione nei confronti del nostro Paese in cui hanno scelto di vivere e il loro apporto alla vita della nostra società sono preziosi».

 

La spontanea, eppure imbarazzante reazione dei membri delle Camere è stata eloquente. Non stupisce, quindi, che la strada che porterà il prossimo 24 giugno alla Camera lo Ius scholae, la proposta di legge che mira a prevedere l’acquisizione della cittadinanza per i minori nati e/o cresciuti in Italia da genitori stranieri, riformando metodi e tempi previsti trent’anni fa dalla legge 91/1992, sia piuttosto una corsa ad ostacoli, coi suoi 480 emendamenti.

 

Ada Ugo Abara, 30enne nata in Nigeria e cresciuta in provincia di Treviso, ha la stessa età della legge, e vive sulla sua pelle i paradossi e dispositivi di blocco che le precludono la partecipazione a programmi di studio internazionali : «Con una laurea in Scienze politiche, relazioni internazionali e diritti umani, non ho potuto fare l’Erasmus, perché non avevo la cittadinanza. Così, sogni come i tuoi coetanei ma poi pianifichi percorsi di vita che non puoi intraprendere», ammette con amarezza. Oggi, come presidente dell’associazione Arising Africans, scardina i poli della narrazione sui figli di immigrati per costruire insieme un immaginario più concreto e reale: «La presenza africana in Italia non è ancora vista come strutturale al territorio. Ma essere socializzati significa guardare in faccia la normalità delle persone, e questo passa anche dal considerare la cittadinanza non più una concessione dello stato, bensì un diritto».

 

Secondo le ultime stime dell’Istat, i minorenni privi della cittadinanza sono oltre un milione e rappresentano il 15 per cento della popolazione under 18 (anno 2018). Era il 2008 quando Amir Issaa, il rapper nato a Roma da padre egiziano e madre italiana, polemizzava contro l’invisibilità delle seconde generazioni nei media: «Con la faccia da straniero nella mia nazione, se il futuro qui è la seconda generazione» (“Non sono un immigrato”).

 

Oggi sono ancora loro, insieme a studenti della scuola italiana, docenti e dirigenti scolastici, che si stanno mobilitando per chiedere un cambio di passo: «Le nuove generazioni sono diverse da quella che rappresenta la classe politica attuale: vivono in classi interculturali, si approcciano alla sessualità in modo più sereno e spontaneo», spiega Kwanza Musi Dos Santos, 29 anni, consulente di diversity management per le aziende. Cresciuta in una famiglia interculturale, è attivista e presidente di QuestaèRoma, l’associazione della capitale che promuove la rappresentanza degli italiani di origine straniera e lotta contro ogni tipo di discriminazione, per superare la rappresentazione razzializzata di chi proviene da contesti interculturali: «La discriminazione ha molte facce, notavamo che il colore della nostra pelle influenzava il modo in cui affrontavamo le questioni e non riuscivamo a trovare un ambiente che fosse sicuro e immune da pregiudizi», spiega.

 

Spesso è il silenzio a rendere viziata l’aria dei diritti: «Basta davvero poco per sentirsi l’unica persona nera nella stanza», spiega Marilucy Saltarin, 37 anni, diversity and inclusion professional in campo mediatico. Nata a Verona da padre italiano e madre brasiliana, vive bene la sua complessità «in cui convivono la feijoada e il salame». Ma la sua è stata una conquista: «Ho frequentato una scuola blasonata, ho fatto la Bocconi, eppure a un certo punto della mia vita ho dovuto fare i conti con il mio non essere bianca e acquisire consapevolezza di me stessa: prima curi te stessa, poi ti accorgi del mondo che ti circonda», ammette ricordando episodi di micro-aggressione: «L’Italia è un Paese razzista, che nega di esserlo. Ti dice “non sono razzista” e poi segue sempre un “ma”. A volte, anche l’ammirazione della gente per te, è solo stupore, perché nessuno avrebbe potuto immaginare che avresti potuto farcela». Se il razzismo è un problema sistemico, «spiegare la discriminazione è mostrare come ci si sente quando qualcuno ti fa sentire una persona fortunata perché accedi in posti in cui nessuno, con il tuo aspetto, può ancora farlo».

 

Ne ha mostrato i risvolti drammatici Seid Visin, l’ex calciatore di origine etiope, suicidatosi a 20 anni in risposta non alla vita, che omaggia con la “maiuscola” nella sua straziante lettera di commiato, ma a chi la disprezzava discriminandolo in uno stillicidio quotidiano: «Era come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco».

 

Ma lo sport è anche il volto rigato di lacrime di gioia di Zaynab Dosso, record italiano sui 60 metri, che agli Europei di atletica leggera a Gavle ha pianto sulle note dell’inno italiano: «Quando ero piccola, cercavo di esporre meno me stessa e non apparire troppo nera. Poi ho deciso di mostrarmi per ciò che sono e, da quando l’ho accettato, ne vado fiera». Agli episodi di razzismo si aggiunge il colorismo. Come spiegano Natasha Fernando, Nadeesha Uyangoda e Maria Catena Mancuso nel podcast “Sulla razza”, il termine – desunto dalla scrittrice premio Pulitzer Alice Walker – indica di un atteggiamento pregiudiziale e preferenziale delle persone basato sul colore della loro pelle: «Mentre il razzismo è un costrutto sociale, il colorismo è legato all’aspetto biologico».

 

I neri in Italia non vogliono sentirsi né vittime né vincitori, ma fare i conti con chi pretende di narrarli al posto loro. Lo ha spiegato bene la scrittrice 23enne Anna Osei. Mantovana, figlia di immigrati ghanesi, in collegamento live Instagram per i literary days di Vogue Italia, ha presentato il suo ultimo libro “Sotto lo stesso sole” come l’esito di una catarsi personale: «Parte di queste discriminazioni le ho vissute male, perché avevo una percezione totalmente sbagliata di me stessa».

 

Questo processo di autocoscienza s’intreccia con ciò che la femminista intersezionale Linda Martin Alcoff definisce «disfunzione cognitiva», cioè l’incapacità dell’occidente bianco nel riconoscersi come oppressore né di comprendere quei tratti della società ancora espressione di una classe predominante. I suoi studi affondano le radici nell’«ignoranza bianca» teorizzata dal filosofo giamaicano Charles Wade Mills, cioè l’ammissione che la tendenza dei bianchi a dichiararsi estranei al razzismo significa sgravarsi delle proprie responsabilità di classe dominante. Lo spiega Denise Kongo, 26enne cooperatrice internazionale e attivista romana, quando si riferisce alla rappresentazione dei neri nei media italiani: «Si fa ancora tanta pornografia del dolore, che serve solo a impietosire gli spettatori bianchi. È facile dire che non si è razzisti, ma poi non informarsi sulle proprie responsabilità, oppure - peggio - rappresentare una persona nera integrata solo perché rientra in un modello sociale ritenuto buono perché bianco». Andi Ngaso, medico di origine camerunese che vive in Italia da sedici anni, risponde provocatoriamente che essere neri non è un mestiere: «Siamo chiamati in tv solo per raccontare la nostra identità, ma abbiamo già i nostri corpi che parlano. La pretesa di stare continuamente nella lotta non è sana. Finché continueremo a scusarci con l’Italia, l’Italia non sarà mai pronta». Molti, come la 25enne milanese Ariman Scriba, reagiscono ritagliandosi spazi sicuri: «Non intreccio relazioni senza sapere quale background ha la persona che ho davanti. Grazie ai social, mi circondo di persone che so che, con le loro parole, non mi faranno sentire in difetto».

 

Oggi per tutti loro, che siano riconosciuti come italiane e italiani di origine straniera o lasciati dallo Stato in una zona grigia, è doveroso cambiare: «La battaglia per la cittadinanza è uno dei nostri pilastri perché ostacola concretamente/ giuridicamente/ sistematicamente i diritti di figlie/i di immigrati oppure dei miei coetanei», spiega Kwanza: «Per studiare, per esempio, devi fare bene i conti per almeno i primi sei anni di studio, perché poi le tempistiche per richiedere la cittadinanza vengono automaticamente rallentate».

 

Le fa eco Ada: «L’iscrizione agli albi professionali è riservata ai cittadini italiani, chi non ce l’ha deve seguire altri percorsi. Quanti cittadini di origine straniera sono resi invisibili nel mercato del lavoro in Italia?». È l’ennesima domanda di chi agogna un’Italia culturalmente diversa. Perché, mutuando la matematica e scrittrice Chiara Valerio, «il contesto è l’immaginazione di diritti che erodano i privilegi che, proprio come i diritti, sono culturali».