Gli impianti a turbina sono nella morsa fra la siccità e la direttiva Bolkestein che vieta la proroga delle concessioni. La Lega spinge per la liberalizzazione, al contrario di quanto fa con le spiagge. Con il rischio di cedere un’importante fonte rinnovabile a soggetti esteri

Nella stagione a metà fra inverno ed estate, la calamità di uno è la felicità dell’altro. Durante il fine settimana di Pasqua il sole ha fatto riaprire bagni e stabilimenti, proprio mentre le centrali idroelettriche, fonti di energia pulita preziosa in tempi di crisi energetica, lamentano una siccità micidiale. Il 60 per cento delle centrali alimentate ad acqua è fermo con poca neve in montagna e i fiumi in asfissia. In uno dei maggiori distretti idrici italiani, l’impianto sul Po a Casale Monferrato dell’Acea lavora con 25 metri cubi al secondo rispetto ai 170 di portata massima. La centrale più grande d’Italia a Entracque (Cuneo), di proprietà di Enel Green Power, opera a regime ridotto come gran parte dei 327 impianti di grande derivazione.

 

Spiagge e centrali sono unite da un’altra circostanza, non meteorologica. Entrambe figurano nel ddl Concorrenza. Il cittadino ingenuo potrebbe chiedersi in che cosa si assomiglino gli ombrelloni e la crisi energetica. Ma la legge non ammette ignoranza e nemmeno ingenuità. Perciò la risposta è chiara. Sia le sedie a sdraio sia le centrali idroelettriche vanno messe a gara perché ce lo chiede l’Europa, prima con la direttiva Bolkestein e adesso con i fondi del Pnrr. Niente gare, niente fondi. Il cittadino ingenuo insiste che, in termini strategici e in tempi di guerra, il paragone fra il Lido Marisa e una centrale da 1300 megawatt è grottesco.

 

I francesi, che hanno un parco di centrali nucleari da rinnovare, sono intervenuti con la proroga automatica delle concessioni per le piccole e medie derivazioni fino al 2041. Sulla scia di Parigi si sono mossi anche i lobbisti italiani imbeccati da Elettricità futura, che riunisce i colossi del settore sotto il marchio di Confindustria ed è presieduta da Agostino Re Rebaudengo, insieme alla più piccola ma combattiva Assoidroelettrica.

 

A Bruxelles e nelle riunioni della decima commissione industria del Senato si lavora per ottenere lo stesso trattamento dei francesi con due argomentazioni. La prima fa presa facilmente. L’idroelettrico è un componente fondamentale delle energie rinnovabili, cioè delle fonti che servono a portare a termine la transizione ecologica.

 

La seconda è un po’ meno nobile e, caso mai, lievemente ricattatoria. I grandi operatori del settore vogliono concessioni lunghe per liberare 9 miliardi di euro di investimenti nei prossimi cinque anni. È una spesa fondamentale per rinnovare gli impianti che rappresentano il 41 per cento della generazione elettrica. Il 70 per cento delle centrali ha più di quarant’anni e molte non sono sottoposte a manutenzione approfondita da tempo con rischi che riportano alla mente la catastrofe della diga del Vajont (ottobre 1963, quasi duemila morti).

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In più c’è il tema dell’approvvigionamento energetico che è stato trattato nell’ultimo documento del Copasir, approvato il 13 gennaio scorso, quaranta giorni prima della guerra. «L’idroelettrico», si legge nella relazione del comitato presieduto da Adolfo Urso (Fdi), «gioca un ruolo centrale per la sicurezza e l’autonomia nel settore energetico, per il raggiungimento degli obiettivi del Green New Deal e per la competitività dell’Italia, nonché per lo sviluppo delle nuove tecnologie di accumulo. Con oltre quattromila impianti e circa 15 mila addetti, l’idroelettrico rappresenta un settore strategico per l’economia nazionale, assicurando circa il 20 per cento della produzione totale di energia elettrica e oltre il 40 per cento della generazione di energia rinnovabile. La potenza complessiva installata in Italia è di circa 23 GW, di cui 19,5 di grande derivazione dei quali i 2/3 scadranno in termini concessori nel 2029. Nel nostro Paese, 8 operatori detengono circa l’80% dell’intera capacità idroelettrica: Enel con il 37 per cento, A2A con il 10 per cento, Alperia con il 9 per cento, Dolomiti Energia con l’8 per cento, Edison con il 6 per cento, CVA con il 6 per cento, Iren con il 3 per cento, Acea con l’1 per cento».

 

Deregulation leghista

Sotto il profilo della tecnica legislativa, il governo ha optato per l’ennesimo dribbling. Con il ddl Concorrenza sommerso da un migliaio di emendamenti, la soluzione vincente è il classico dei classici: una piccola proroga. In questo caso si parla di fare slittare le concessioni in essere a fine 2023, quindi alla prossima legislatura. Dato il momento politico internazionale, l’Ue è disposta a rassegnarsi. Salvo indicazioni diverse della nuova maggioranza politica, dal 2024 le gare dovrebbero ripartire con un vincolo di progetto. Il concessionario uscente stabilirà le condizioni. Se un concorrente fa un’offerta economica migliore, il titolare della concessione potrà esercitare una sorta di diritto di prelazione adeguando la sua proposta al rialzo massimo. Più o meno è la falsariga delle concessioni balneari, altro oggetto del contendere del ddl Concorrenza ma a parti politiche invertite.

 

Lega e Forza Italia, che avversano le gare per i lidi, sono favorevoli alle gare per le centrali, a costo di un’ennesima spaccatura all’interno del centrodestra con Fratelli d’Italia, schierata in modo netto per la proroga. Il partito di Giorgia Meloni non ha grande peso nei distretti principali dell’idroelettrico, seminati su tutto il territorio nazionale ma con una presenza essenziale sull’arco alpino. Sul fronte del nord gli enti locali sono in larga parte in mano ai salviniani o ai partiti delle aree a statuto speciale come Valle d’Aosta, con la Compagnia valdostana delle acque (Cva), controllata dalla holding finanziaria regionale Finaosta, e come il Trentino-Alto Adige con Alperia, nata a valle degli scandali giudiziari che dieci anni fa hanno travolto la giunta di Luis Durnwalder. Caduto il “kaiser” della Svp dopo venticinque anni di governo, la provincia di Bolzano ha subito perso la gestione dell’impianto di S. Antonio e a Rio Pusteria a beneficio della Eisackwerk, dopo cinque anni di battaglie legali.

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Al momento le punte di lancia della regionalizzazione sono la provincia di Trento, che controlla Dolomiti Energia, con il responsabile dell’ambiente Mario Tonina, e il Veneto di Luca Zaia con l’assessore Gianpaolo Bottaccin. L’obiettivo è superare il regio decreto 1775 del 1933, non proprio l’ultimo grido nel comparto legislativo, che garantisce alle piccole e medie derivazioni il rinnovo tacito della concessione “salvo interessi prioritari” ossia per bere o per irrigare i campi.

 

Anche la Lombardia di Attilio Fontana ha imboccato la stessa strada dopo il decreto Semplificazioni di fine 2018, dove Matteo Salvini aveva inserito la regionalizzazione dell’idroelettrico. Le nuove gare erano state bocciate da una sentenza dell’autorità antitrust che ha ribadito come la politica energetica sia materia statale. Ma il partito che più amava Vladimir Putin ha riproposto le gare alla fine dello scorso febbraio, proprio a ridosso dell’invasione russa dell’Ucraina, per le venti concessioni scadute su settanta impianti a grande derivazione concentrati fra Valtellina (Sondrio) e Valcamonica (Brescia).

 

E non è solo una questione alpina. Da qui al 2029 l’86 per cento delle concessioni sarà scaduto. Fra le principali, c’è il Nucleo Terni, un gigante distribuito fra Umbria, Lazio e Marche con 19 centrali, sette dighe e quattro bacini, ceduto dalla Erg a Enel produzione nell’agosto del 2021 per 1038 milioni di euro.

 

Non passa lo straniero

«Appare fondamentale», ha detto il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani durante un question time alla Camera poco prima di Pasqua, «definire in sede europea una disciplina uniforme per tutti gli Stati membri che, nel rispetto della normativa europea, tuteli lo sviluppo di un asset strategico per il settore energetico italiano. Esperienze in passato hanno visto intervenire paesi stranieri con il golden power quando si andava a fare shopping a casa loro, per reciprocità gli Stati possono mettere il golden power, è ovvio che questa è una risposta bilaterale, ma una risposta europea, una normativa chiara, aiuterebbe moltissimo».

 

Il rischio principale del decreto concorrenza e della messa a gara dell’idroelettrico è, ancora una volta, identico a quello delle concessioni balneari dove la Lega, insieme a lobbisti trasversali, agita lo spettro delle invasioni barbariche senza timore dell’incoerenza. In spiaggia, non passa lo straniero. Le turbine, invece, vanno liberalizzate, magari a vantaggio delle finanziarie regionali o di capitali internazionali. I rischi di questa deregulation erano stati rappresentati lo scorso novembre da Enrico Borghi, responsabile della sicurezza del Pd. «La disciplina del regime concessorio in materia energetica va completamente ripensata», aveva detto il parlamentare democrat. «In materia di energia, e di rinnovabili in particolare, il nostro Paese è esposto al rischio di scalate estere, con impatti possibili sulla sovranità nazionale e sull’indipendenza economica della Repubblica».

 

In effetti, almeno uno straniero di notevoli dimensioni è già passato. Già oggi in Lombardia dieci delle venti centrali che dovrebbero diventare contendibili sono in mano a Edison, una società controllata dal colosso francese Edf che ha il secondo fatturato del settore (11,7 miliardi di euro nel 2021), a grande distanza dal gruppo Enel (88,3 miliardi) e poco al di sopra di A2a (11,5 miliardi) e di Hera (10,55 miliardi di euro).

 

Per attenuare l’incongruenza leghista sulle gare, è intervenuto l’altro ministro con voce in capitolo oltre Cingolani. Il salviniano riluttante Giancarlo Giorgetti, che guida lo Sviluppo economico, ha dato segnali di apertura condizionati. «Se dobbiamo parlare», ha detto un mese fa, «di possibilità di rinnovo o di proroghe delle concessioni, devono essere a condizioni economiche di mercato, certamente non a quelle scritte in concessioni di cinquanta o sessanta anni». Come non essere d’accordo? Le società dell’energia hanno presentato bilanci fantastici prima della crisi russo-ucraina e alcune hanno proposto dividendi maggiorati agli azionisti sollevando, dopo l’invasione, il tema legislativo della tassazione degli extraprofitti. Anche la bolletta più leggera fa parte della trattativa, in quell’area energetica trascurata che si chiama bene comune.