Crescono i progetti, ma per una produzione realmente green occorrono investimenti massicci sugli impianti e interventi sui costi. O sarà l’ennesima occasione sprecata

Dopo anni di tentativi, false partenze e ricerche a vuoto la via dell’idrogeno sembra tracciata. Non per tutti. Per le autovetture sembrano più utili le batterie elettriche, così come per il riscaldamento delle case sono più efficienti le pompe di calore. L’attenzione della ricerca e degli investimenti, di contro, si concentra su quei settori ad alta intensità di emissioni come siderurgia, cemento e trasporti a lungo raggio, che non possono essere decarbonizzati solo con l’elettrificazione. Si parte da quanti già usano l’idrogeno, come gli impianti di produzione di ammoniaca per i fertilizzanti, di metanolo per l’industria chimica e della raffinazione del petrolio. Ma anche qui è questione di metodo. È vero che l’idrogeno è fonte sterminata, almeno in teoria, di combustibile pulito, ma è anche molto reattivo e in natura raramente si presenta allo stato libero. Di solito lo si trova legato assieme all’ossigeno nelle molecole d’acqua e al carbonio negli idrocarburi come propano e metano. Va estratto da quelle molecole. Oggi, quasi tutto l’idrogeno è prodotto dalla scomposizione di combustibili fossili (idrogeno da una parte, carbonio dall’altra). La materia così estratta viene usata soprattutto nell’industria petrolchimica e dei fertilizzanti. Ciò comporta l’emissione di circa un miliardo di tonnellate di anidride carbonica ogni anno, il 2% delle emissioni globali di gas serra. Insomma il mondo usa già l’idrogeno ma è idrogeno sporco.

 

Per rendere pulita la filiera, tutto il carbonio rilasciato dovrebbe essere assorbito e immagazzinato. Solo così l’idrogeno prodotto con questa tecnica può definirsi blu. Gli strumenti di cattura e stoccaggio, oltre a far aumentare i costi, però non sono perfetti e un po’ di anidride carbonica sfugge sempre. L’Eldorado di vera sostenibilità va cercato quindi nell’acqua. Due atomi di ossigeno, uno di idrogeno. L’acqua va scomposta con un processo chiamato elettrolisi e il modo più pulito per farlo è con un elettrolizzatore alimentato da fonti rinnovabili, fotovoltaico o solare (in questo caso l’idrogeno è verde), oppure attraverso l’energia nucleare (idrogeno rosa).

 

La pulizia non è a buon mercato. L’idrogeno verde non può ancora competere con le forme più sporche che costano meno di due dollari al chilo. E il rialzo recente dei tassi d’interesse incide sui costi. Senza sussidi, il prezzo dell’idrogeno verde oggi è calcolato tra 4,5 e 7 dollari al chilo. Andrà meglio fra qualche anno, dice la società di consulenza McKinsey: il costo dovrebbe scendere tra 2,5 e 3,5 dollari entro il 2030. Un traguardo che alimenta un certo ottimismo che tiene conto non solo delle preoccupazioni ambientali ma anche delle considerazioni geopolitiche.

 

Degli oltre mille progetti sull’idrogeno attualmente in corso nel mondo almeno 350 sono stati annunciati nell’ultimo anno. Entro il 2030 dovrebbero produrre investimenti per 320 miliardi di dollari. In Europa, nel 2020 la strategia prevedeva l’installazione di 40 Gigawatt (Gw) di elettrolizzatori per produrre almeno 10 milioni di tonnellate di idrogeno rinnovabile entro il 2030. A quanto pare si sta facendo di più. Il Politecnico di Milano dice che i Paesi europei hanno annunciato progetti su impianti di elettrolisi per una capacità pari a oltre 90 Gw entro il 2030. I protagonisti sono Germania, in testa, Spagna, Olanda, Danimarca e Regno Unito, ciascuno con annunci al 2030 superiori a 10 Gw.

 

E l’Italia? Il Pnrr ha stanziato per l’idrogeno 3,19 miliardi di euro: 500 milioni per la produzione in siti dismessi (la Hydrogen Valley), 2 miliardi per l’uso nei settori cosiddetti hard to abate, cioè difficili da pulire solo con l’energia elettrica. Il resto per sperimentazioni su trasporti stradale e ferroviario e per ricerca e sviluppo. Secondo il Politecnico di Milano però i progetti annunciati in Italia darebbero luogo a meno di 2 Gw di elettrolisi entro il 2030, un risultato di gran lunga inferiore agli obiettivi di 5 Gw di elettrolisi e 2% della domanda di energia soddisfatta da idrogeno verde entro il 2030. L’Italia, afferma Davide Chiaroni, professore associato del Politecnico di Milano e cofondatore dell’Energy and strategy group, «non si è ancora data una chiara strategia nazionale sull’idrogeno, con il rischio di non gettare le basi per lo sviluppo del mercato, disorientando potenziali investitori».

 

Del resto, anche a livello globale, gli investimenti non sono abbastanza. L’Agenzia internazionale dell’energia calcola che l’idrogeno pulito dovrebbe comprendere circa un decimo del consumo finale di energia entro il 2050. Questo significa che per raggiungere entro quella data l’azzeramento delle emissioni nette di anidride carbonica dovrebbero essere investiti nell’idrogeno altri 380 miliardi di dollari entro il 2030, oltre ai 320 miliardi di dollari annunciati finora. Altrimenti il rischio non è quello di una bolla di soldi sprecati ma di un’opportunità sfumata per mancanza di risorse adeguate.

 

Bisogna spingere ma nella direzione giusta. Se distribuiti senza strategia, i sussidi rischiano di fare più male che bene. Ad esempio, per sviluppare il business degli elettrolizzatori potrebbe essere concessa troppa energia elettrica ottenuta da combustibili fossili.

 

E si guarda ai modelli più virtuosi. Poco lontano da Madrid, il gigante energetico spagnolo Iberdrola ha costruito uno degli elettrolizzatori più grandi al mondo, in tutto circa 20 Megawatt, e lo alimenta con l’energia di un parco solare vicino. L’idrogeno pulito che esce dall’elettrolizzatore viene comprato da un impianto di fertilizzanti nei paraggi per produrre ammoniaca. Più cara, ma sostenuta dagli incentivi per la transizione energetica.

 

In Svezia, a Boden, vicino al circolo polare artico, la start-up H2 Green Steel sta costruendo un impianto siderurgico da 4 miliardi di euro e 5 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, alimentato da idrogeno verde prodotto in loco da fonti eoliche e idroelettriche, abbattendo del 95% le emissioni.

 

Anche a Catania, Enel Green Power e Acciaierie di Sicilia hanno avviato un progetto simile, questo però sostituisce con l’idrogeno verde solo il 30% del gas naturale usato nel forno. Quali gli ostacoli? Per prima cosa il costo. Le acciaierie verdi sono ancora due o tre volte più costose da costruire rispetto a quelle convenzionali. L’altro scoglio è che c’è bisogno di un aumento colossale di energia elettrica pulita. Si calcola che raggiungere gli obiettivi di produzione interna Ue di idrogeno verde richieda circa 500 terawattora di nuova elettricità entro il 2030, più o meno equivalente all’attuale consumo di elettricità annuo della Germania. Impossibile? No, sarebbe più facile aggiungendo alle rinnovabili il nucleare.