Può contare su investimenti miliardari e levate di scudi, ma i dubbi sugli alimenti artificiali non mancano. Sul fronte della salute, normativo e della sicurezza. E non risolve il dilemma di un ecosistema equilibrato

Fettine di manzo coltivate in laboratorio. Pesce in provetta che non nuota. Latte di mucca senza mucche. In due parole: cibo sintetico. «L’umanità sta imparando a sostituire alcune delle attività naturali che sono state più importanti nel corso della storia con altre sintetiche progettate da noi», scrive Christopher J. Preston nell’introduzione al suo libro “L’era sintetica-Evoluzione artificiale, resurrezione di specie estinte, riprogettazione del mondo” (ed. Einaudi). E oggi questa rivoluzione niente affatto gentile coinvolge anche ciò che mangiamo.

 

A Singapore un paio di anni fa è stata autorizzata per la prima volta al mondo la commercializzazione di nuggets di pollo artificiale. In Danimarca si potranno acquistare latticini che probabilmente manderanno le vacche in prepensionamento grazie a un investimento di 120 milioni di dollari mentre una start-up israeliana, che annovera tra i finanziatori l’attore Leonardo Di Caprio, produce “vera carne” partendo da cellule staminali con un processo simile a quello naturale che porta allo sviluppo della mucca. In uno scenario non troppo lontano, si prospetta una battaglia che vede in campo scienziati alimentari e ingegneri tessutali contro pastori e veterinari. E il grido d’allarme arriva dalle varie associazioni di categoria che temono la distruzione del legame cibo-produzione agricola-territorio. Con inevitabili ricadute sociali.

 

«Il primo hamburger artificiale è stato messo a punto nel 2013 dall’Università di Maastricht con costi da capogiro: circa 290 mila euro. Attualmente il mercato maggiore è quello statunitense dove gli investimenti vanno avanti a ritmi serrati», spiega Felice Adinolfi, docente di Economia agraria all’Università di Bologna e direttore del Centro Studi Divulga. «La carne sintetica è prodotta con strisce di fibra muscolare che crescono attraverso la fusione di cellule staminali embrionali: lo sviluppo avviene in un bioreattore, le cui condizioni di luce e di calore imitano il corpo dell’animale».

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È stato calcolato che, da qui al 2030, il mercato della carne sintetica potrebbe valere circa 25 miliardi di dollari. Un business che vede come player Bill Gates ed Eric Schmidt, co-fondatore di Google, Vinod Khosla di Sun Microsystem e Marc Andreessen, fondatore di Netscape, solo per citarne alcuni. «Tra le verità non dette c’è che questi processi consumano più acqua ed energia rispetto a molti allevamenti tradizionali: se il metano usato nelle stalle rimane nell’atmosfera per circa dodici anni, l’anidride carbonica legata alla produzione di carne sintetica si accumula per millenni», sottolinea Adinolfi.

 

Delicato anche il tema sicurezza: interpellati per un’indagine Coldiretti/Ixè sui motivi principali per cui bocciare il cibo fatto in laboratorio, gli italiani sono scettici nei confronti di quello non naturale (68 per cento) e manifestano consistenti dubbi sul fatto che sia sicuro per la salute (60 per cento). Senza contare che potrebbe non avere lo stesso sapore di quello vero (42 per cento). Infine, c’è chi teme per il suo impatto sulla natura (18 per cento).

 

«Da un lato ci preoccupa il tentativo di cancellare secoli di storia legati al sistema agroalimentare che, in Italia, vale 575 miliardi di euro con 4 milioni di occupati (quasi un quarto del Pil nazionale, ndr), dall’altro la concentrazione del business in mano a pochi grandi gruppi», sottolinea Ettore Prandini, presidente Coldiretti. «Inoltre questo tipo di produzione azzererebbe la manodopera bypassando la grande distribuzione. E questo vale per la carne come per il latte. Non ultimi, il danno per la biodiversità che coinvolge Paesi ricchi o in via di sviluppo e la tutela della sicurezza per i consumatori: ad oggi non abbiamo dati in proposito e va ricordato che si tratta di cibo sintetizzato in laboratorio quindi paragonabile a un farmaco».

 

«La prima considerazione da fare è che la scienza dimostra l’eccellenza della dieta mediterranea con conseguente longevità della popolazione che la segue: perché proporre qualcosa di diverso da ciò che è ottimale?», afferma Alberto Villani, direttore dipartimento emergenze, accettazioni e pediatria generale dell’ospedale Bambino Gesù. «Dal punto di vista etico dobbiamo poi chiederci cos’è un pasto ovvero la somma di tanti alimenti che favoriscono la nascita di germi buoni e cattivi. Come medico dico che mangiare significa anche godere dei sapori, degli odori, dei colori. Sarà possibile tutto questo con l’avvento del cibo sintetico? Occorrerà sicuramente una documentazione scientifica».

 

Dello stesso parere lo chef tre stelle Michelin, Heinz Beck, del ristorante La Pergola di Roma: «Difficilmente i cibi sintetici riusciranno a mettere in discussione la storia e soprattutto la tradizione gastronomica italiana. Abbiamo il dovere di sensibilizzare le nuove generazioni a un utilizzo consapevole di materie prime naturali e coltivate in maniera sostenibile. Comunque, non credo utilizzerò mai cibi allevati in laboratorio».

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Impossibile paragonare un taglio di carne che non ha mai fatto parte di un animale vivo con uno tradizionale. E, forse, non lo pretendono neppure gli “agricoltori del futuro” che stanno nei laboratori. Semmai cercano di sostituire il termine “sintetica” con i più rassicuranti “coltivata” o “pulita”. «Il mercato della carne sintetica così come l’utilizzo della stampa 3D alimentare per replicare forma e gusto di una bistecca, porteranno a profonde trasformazioni che vanno ben oltre l’aspetto ambientale», sostiene Sara Roversi, presidente e co-fondatrice del Future food institute, organizzazione che si occupa di innovazione delle filiere alimentari con sedi in Italia (a Pollica, nel Cilento, Comunità emblematica Unesco della dieta mediterranea), Giappone e Stati Uniti. «L’approccio corretto all’ecologia integrale deve considerare tutte le dimensioni di impatto: politica, economica, umana, sociale, ambientale, culturale. La realtà è che sostenibilità e sicurezza alimentare non dovrebbero essere una dicotomia. Creare ecosistemi in equilibrio, capaci di generare vera prosperità inclusiva, di garantire un accesso democratico alle risorse, con nuove forme di governance decentralizzate e rispettose dell’ambiente, è oggi la vera sfida. Da cui dipendono anche gli scenari, pacifici o conflittuali, perché clima, ambiente, cibo, nutrimento, energia se ben amministrati e gestiti sono incredibili veicoli di pace», conclude Roversi.

 

Un discorso altro riguarda l’aspetto normativo legato alla commercializzazione dei prodotti. «I cosiddetti novel food, regolati da una normativa europea, comprendono sia alimenti ricavati da fonti innovative, sia da nuove modalità e tecnologie. La Commissione Europea autorizza la vendita di un novel food e ne stabilisce le condizioni d’uso», spiega Elio Palumbieri, avvocato esperto di diritto agroalimentare e partner del progetto Icc Agri-Food Hub Italia. «Per quanto riguarda i cibi coltivati, resta il problema di come chiamarli: se scegliamo il termine carne creiamo concorrenza con il prodotto naturale».

 

Partendo dal presupposto che il mondo dell’alimentare è tutt’altro che statico, sugli ingredienti del futuro si apre uno scenario interessante. Che vede protagonista anche il nostro Paese. Un esempio? La Hi-Food di Langhirano, azienda impegnata in ricerca, sviluppo e produzione di materie prime innovative che fa parte del Gruppo Csm Ingredients (multinazionale con un giro d’affari da 640 milioni di euro rilevata recentemente da Investindustrial di Andrea Bonomi). «La nostra è una catena creativa, basata sull’applicazione in stabilimento piuttosto che sulla tecnologia: prendiamo fibre tipo la crusca e le trasformiamo in ingredienti funzionali che permettono a chi li adopera di inventare prodotti nuovi», racconta Massimo Ambanelli, Ceo di Hi-Food, che ha fondato con due soci una decina di anni fa nel Campus dell’Università di Parma. La cifra destinata a ricerca e sviluppo è consistente: «Stiamo per lanciare sul mercato il ragù all’italiana cento per cento vegetale ottenuto da proteine di piselli gialli testurizzate in modo da replicare consistenza e succosità della carne». Con buona pace della dieta mediterranea.