Fao, Wwf e startup scoprono i pescatori artigianali. Perché offrono la fonte di proteine animali meno inquinante. Combattono il monopolio della pesca industriale e degli allevamenti. E aiutano a ripulire il mare

Il fishburger di tombarello è facile da preparare. Frulli la polpa a pezzetti con un uovo, prezzemolo, pangrattato e condimenti, compatti il composto con un coppapasta, scotti in padella e monti in un panino caldo con lattuga e pomodoro. E poi gusti senza sensi di colpa questa versione sostenibile del panino più famoso al mondo consigliata da Hellofish.it, uno dei siti che sostengono la piccola pesca artigianale. Quella che si pratica con barche non più lunghe di undici metri, quella che da secoli forma la spina dorsale sociale ed economica delle coste italiane. E che sta richiamando sempre più l’attenzione delle grandi organizzazioni mondiali e delle Ong impegnate per il rispetto dell’ambiente.

 

C’erano rappresentanti di quaranta Paesi al recente “Vertice sulla piccola pesca” organizzato a settembre dalla Fao a Roma. «La piccola pesca è quella che può essere più facilmente gestita in modo rispettoso dell’ambiente», spiega Giulia Prato, responsabile mare del Wwf Italia. «Ma servono regole precise: nel convegno ci siamo concentrati su come mettere in pratica le linee guida messe a punto negli ultimi anni. Sono indicazioni che non riguardano solo l’impatto ambientale ma anche le condizioni di lavoro, i supporti sociali, il ruolo delle donne. Il nostro focus “Pescare oggi per domani” rientra in questo quadro. Ci lavoriamo da cinque anni in venti paesi del Mediterraneo, con diversi progetti anche in Italia, tra Sardegna, Puglia e Sicilia. Sono nati in cogestione con i pescatori: affrontare problemi concreti porta a regole condivise, che sono più facili da rispettare».

 

I problemi concreti ci riportano al tombarello. E al lonzardo, la corifena, l’alaccia, e i tanti tipi di pesce ignorati dai consumatori, viziati da un’offerta monopolizzata da merluzzo e gamberetti, salmone e pescespada. «Oggi il consumo di pesce in Italia si concentra su circa dieci specie di pesce, mentre nel secondo dopoguerra erano centocinquanta», calcola Danilo Zagaria, che nel volume “In alto mare” (Add) ha raccolto un’enciclopedia di pericoli e potenzialità del pianeta acqua nell’Antropocene. La prima conseguenza di questa “monopesca” è la cattura eccessiva di pochissime specie che rischiano di non riprodursi abbastanza in fretta. Un altro è quello che in inglese si chiama “bycatch”: nelle reti rimangono impigliati pesci di nessun valore economico che vengono ributtati in mare, ma spesso sono feriti o moribondi.

 

Eppure la piccola pesca è attualmente il sistema più sostenibile per procurarsi proteine animali: è molto meno dannosa per l’ambiente degli allevamenti e della pesca industriale, ma anche degli allevamenti di polli, bovini o suini. E molto si può fare per allargare il mercato, per spingere i consumatori ad apprezzare la biodiversità. Prato racconta due esperimenti in corso in Italia: «A Porto Cesareo i pescatori avevano il problema di commercializzare un pesce poco conosciuto, lo zerro, una specie povera che vendevano a un prezzo bassissimo. Li abbiamo aiutati ad avviare una collaborazione con un'azienda locale che ora produce anche polpette di pesce. In Sicilia invece per aiutare i pescatori a vendere il pescato direttamente ai ristoranti abbiamo promosso un'app su cui viene segnalato il tipo di pesce del giorno: in questo modo la filiera si accorcia e i pescatori guadagnano di più».

 

Un altro fronte che rende importanti i piccoli pescatori è la lotta all’inquinamento da plastica. La startup Ogyre per esempio finanzia il “fishing for litter” in tutto il mondo vendendo vestiti prodotti con plastica riciclata. Sono progetti di nicchia rispetto al mercato mondiale del pesce: gocce nel mare, verrebbe da dire. Ma sono nicchie che stanno prendendo piede in tutto il mondo. Anche perché informarsi non è difficile. «Fino a dieci anni fa sulle scatolette di tonno non era indicata la specie», ricorda Zagaria. «Oggi le etichette sono migliorate e sapere da dove viene il pesce che mangi è più facile. Basta ricordarsi di girare la scatoletta di tonno, o di guardare il retro di quella busta di salmone decorata con le onde di un bellissimo mare ma che in realtà contiene pesce d’allevamento».

 

Ha fatto scalpore, in questo senso, un servizio de La7 che mostra una busta di “Caciucco alla livornese” surgelato: neanche uno dei pesci proviene dal Tirreno, ma da Indonesia, Filippine, Cile… Per scoprirlo però basta appunto girare la busta. Per questo la più famosa degli oceanologi, Sylvia Earle, è fiduciosa del fatto che una maggior consapevolezza dei consumatori possa portare a una “blue economy” che incoraggi la sostenibilità marina. Intervistata da Kerstin Forsberg per il volume “Oceano” della collana The Passenger di Iperborea, si è rivolta direttamente al lettore: «Anche tu puoi essere parte della soluzione, un pesce alla volta».