Attacchi fisici e verbali, disinformazione, umiliazione, abbandono, procedure mediche coercitive o non acconsentite, si consumano negli ospedali e diventano shock indelebili. Un argomento di cui si parla ancora poco, ma che inizia a circolare nella coscienza delle donne e con una proposta di legge in Parlamento

Esistono storie sotterrate nella coscienza, inascoltate, rinchiuse in un angolo della mente. Storie che però emergono nella vita di tutti i giorni: col dolore fisico e psicologico, con i sensi di colpa e l’impressione di essere assenti per anni. Sono quelle delle donne che hanno subito “violenza ostetrica”. Parti, interruzioni di gravidanza e interventi ginecologici e ostetrici vissuti come un incubo. Abusi nascosti sotto una normale prassi ospedaliera.

Disinformazione, abbandono, umiliazione, violazione della privacy, attacchi fisici e verbali, procedure mediche coercitive o non acconsentite, si tramutano in shock indelebili. “Mi sono sentita carne da macello”, “mi hanno lasciata in corsia da sola per ore”, “mi sono saltati sulla pancia per far uscire il bambino”, “mi hanno tagliata e non lo sapevo”, “non mi sono sentita madre”.

“Per qualche assurdo motivo ci insegnano che non sapere è meglio, quasi portasse sfortuna o potesse preservarti”. A parlare è Sara, quattro gravidanze in quattro anni: un aborto e poi tre parti naturali, “più o meno naturali” aggiunge. I suoi parti Sara li ha vissuti da esterna, come se non avesse deciso nulla. Eppure la lussazione dell’osso sacro per due volte per la manovra di Kristeller (pressione sul fondo uterino per accelerare l’uscita del bambino, una manovra pericolosa e vietata in alcuni paesi), l’episotomia (il taglio chirurgico del perineo e della vagina) e l’accusa di non essere capace di partorire, le ha ricevute lei.

Dalla nascita del terzo figlio, la più faticosa e rischiosa, Sara non è più la stessa: “Mi sveglio di notte in un bagno di sudore, rifiuto qualunque tipo di contatto fisico con mio marito, mi chiudo a scrigno d'istinto. E poi c’è quel nodo che ti abitui a portare e che è divenuto parte di te. Quando ne senti il peso lo rimandi giù. Perché dai tanto tutto si dimentica. Non è cosi che dicono sempre?”.

NON È MALASANITÀ

Invece queste donne non dimenticano. Servono anni e poche hanno il coraggio di entrare in terapia e farsi aiutare. “Ansia, blocco della sessualità, dolori e scosse con cui il corpo somatizza, vaginismo per le lacerazioni subite durante il parto. Sono alcuni aspetti del disturbo post traumatico da stress di cui queste donne soffrono. Poche invece quelle a cui viene diagnosticata la depressione post partum”, spiega Claudia Ravaldi, psichiatra. Claudia dopo la morte a fine gravidanza del figlio ha fondato nel 2006 l’Associazione CiaoLapo Onlus per la tutela della gravidanza a rischio e il supporto psicologico ai genitori colpiti da lutto perinatale.

La dottoressa Ravaldi su una cosa è chiara: “Non si tratta di malasanità. La maggior parte delle donne che si rivolgono a noi non hanno avuto un parto grave, un distacco di placenta, emorragie o perdita dell’utero”. Queste donne si sentono violate, poco informate, estraniate da un momento importante della propria vita. “Dal nostro osservatorio emerge che il 35 per cento delle donne ha ricevuto un trattamento senza che lo sapesse, e solo il 25 per cento delle coppie è piacevolmente colpito dall’esperienza di parto in ospedale”, aggiunge la Ravaldi.

Sulla "violenza ostetrica" ora spunta anche una proposta di legge. A portarla in Parlamento è stato il deputato di Sinistra Ecologia e Libertà Adriano Zaccagnini. La legge è in linea con le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Nessun attacco alla categoria medica, il testo vuole proteggere i diritti fondamentali della partoriente e del neonato: più sicurezza e migliore assistenza”, ha spiegato l’onorevole. Punto fondamentale è favorire il parto fisiologico (il cosiddetto “naturale”). La proposta di legge cita infatti l'inchiesta dell’allora ministro della Salute Renato Balduzzi che aveva definito “ingiustificato” il 43 per cento dei parti cesarei.

FRASI INDELEBILI

“La mia prima gravidanza è stata sentenziata dalla ginecologa lo stesso giorno del test positivo, perché avevo delle piccole perdite. E quella frase ‘vada a casa tanto è un aborto’, è ancora nella mia testa”, racconta ancora Sara.

Non è la sola. Sono molte le donne che si incidono per anni nella mente le frasi di medici e ostetriche. “Apri le gambe veloce”, “che ti lamenti, l’hai voluto tu”, “ti piaceva quando hai aperto le gambe”, “sbrigati o il bimbo muore e sarà colpa tua”, “urlare non serve a niente”, “non sai spingere”, “ma ti spicci a partorire”.

Anche Laura, in ospedale per un’interruzione di gravidanza al quinto mese per una malformazione celebrale, ricorda tutto. La stanza in fondo il corridoio, il parto da sola in stanza con il marito dopo 13 ore di travaglio, l’epidurale negata perché di turno un obiettore di coscienza. Laura è stata ricoverata in una struttura pubblica di Milano, la dottoressa che aveva sentenziato la morte di suo figlio, il giorno dopo l’aborto le ha detto con il sorriso: “Oggi la trovo bene”. Sono passati dieci anni.

“Quando mio figlio è uscito l’hanno avvolto alla svelta intorno a un lenzuolo e portato via. Non l’ho potuto neanche vedere”. E Laura quel bimbo non l’ha più rivisto. Durante il travaglio ha firmato un foglio per una sepoltura in un luogo sacro. Dopo poco scoprirà che per sbaglio suo figlio è finito nei rifiuti speciali. Nella cartella clinica di quel documento non c’è più traccia. “Mi sono fatta viva con l’ospedale dopo nove anni: volevo una foto di mio figlio - continua Laura -. Al loro rifiuto mi sono presentata lì: ero preparata. Hanno preso da parte mio marito e sbattuto in faccia l’immagine dell’autopsia: ‘Vuole che sua moglie veda questo?’, gli hanno detto. Lui invece non era pronto. Non ha detto nulla”.

Le lamentele di Laura sono simili a quelle di molte altre: “Non ho ricevuto nessuna assistenza psicologica né prima né dopo. Neanche mi hanno chiesto se la volevo. Imbottita di peditina (un anestetico, ndr) non mi sono neanche resa conto di cosa accadeva. Ero stordita. Non mi sono sentita mamma e non me l’hanno trattato come un figlio”.

“Per togliersi un neo si firmano decine di fogli, ma non viene fatto nulla per la gravidanza. Il consenso informato risolverebbe molti problemi”, spiega Valentina Pontello, ginecologa. “Basterebbe andare in ospedale un paio di mesi prima e riceve tutte le informazioni. Decidere in quel momento quali trattamenti si vogliono e quali no - aggiunge la Pontello che però precisa - durante il parto non è detto che tutto vada come previsto questo va calcolato”.

Oggi però non è difficile per le donne informarsi: spulciano sui siti, fanno giri nei forum, si confrontano e si accorgono che non hanno vissuto esperienze “normali”. Sono centinaia e chiedono a gran voce rispetto, consapevolezza, dignità. Ha fatto rumore la campagna social #bastatacere lanciata a inizio aprile e a cui hanno preso parte anche molti operatori sanitari. Sono oltre 1.000 le testimonianze di madri pubblicate in forma di foto-cartelli sulla pagina Facebook. Più di 22.000 le adesioni.  

COSA NON FUNZIONA

Turni prolungati, mancanza di personale, poche stanze e corsi di formazione radi. Anche dagli ospedali denunciano situazioni al limite. Nonostante l’entrata in vigore di una direttiva dell’Unione Europea del 2003 secondo la quale un medico non può rimanere in ospedale più di 12 ore, la situazione è diversa. “Spesso si fanno turni anche di 24-48 ore. Molti medici dopo la notte fanno colazione, timbrano e rientrano” racconta la Pontello.

“Alcuni giorni devo sistemare anche 10 bambini morti” racconta un’ostetrica che segue interruzioni di gravidanza. “Devo assistere parti in corridoio”, dice un’altra. “L’assistenza ideale sarebbe uno a uno, madre e ostetrica - spiega ancora la Ravaldi -. Al Fatebenefratelli di Roma il carico è di sette, nove donne a infermiera”. Ci sono ospedali dove avvengono 5.000 parti l’anno che vuol dire 15-20 parti a settimana per un operatore.

Ora una normativa ministeriale vuole la chiusura e l’accorpamento dei punti nascita con meno di 1.000 parti l’anno. “Sono piccole realtà che funzionano - spiega la Ravaldi -. Nei grandi centri le ostetriche dicono di passere da un letto all’altro. A fine giornata sentono di aver fatto male il proprio lavoro”. Ma il malcontento in Italia è a macchia di leopardo: “Nel Lazio la situazione è grave anche perché ci sono pochi posti letto e operatori. Stessa cosa per le regioni del Sud Italia. Buona invece in Lombardia, Trentino, Emilia-Romagna e Toscana - spiega la psichiatra -. Da Veneto e Sardegna avevamo molte lamentele, ma in poco tempo la situazione è migliorata”.

La formazione poi è spesso ferma agli anni dell’università: per mancanza di fondi non si riconoscono le ore dei corsi di aggiornamento. “Il 30-40 per cento degli operatori vorrebbe formarsi di più - spiega la Ravaldi -. Chiedono di avere un confronto tra colleghi in caso di evento traumatico. In ospedale invece suggeriscono un periodo di ferie”. Un altro problema sentito dalla categoria è quello legale: “I medici si sentono burocrati. Pesa molto la questione dei risarcimenti e quelli in sala parto sono i primi della lista - aggiunge la Pontello -. È uno dei motivi per cui si sta diffondendo la “medicina difensiva”: interventi medici non richiesti e non necessari, ma che i medici applicano per tutelarsi”.

Ed è proprio la “medicalizzazione” del parto uno dei motivi per cui le donne si sentono derubate dal proprio ruolo. A dirlo è Simona Minniti, ostetrica con oltre 30 anni di esperienza, sia in ospedale sia fuori, con i parti in casa. “Per liberare le sale più velocemente si usano molti farmaci, così il parto non avviene in maniera naturale, ma è costretto in certi canoni”. Dinamiche che spesso portano a una sola possibilità, quella del cesareo. “Dopo ore di travaglio la donna è esausta, sdraiata da ore, iniettata di medicine che le hanno tolto la padronanza del proprio corpo. Anche le competenze delle ostetriche diventano limitate. Il parto in sala diventa l’unica soluzione”, spiega la Minniti.

“Dirigevo alcuni corsi preparto in ospedale: spesso non viene detto tutto, ma dipinta un’immagine leggera, per proteggere la donna, si dice”. Un altro problema secondo gli operatori sono le percentuali degli ospedali, i numeri cioè di cesarei, parti naturali, episiotomie, morti natali. “Sapendoli le donne potrebbero decidere quale struttura è meglio per loro”, aggiunge la Minniti. L'ostetrica prende come esempio l’Europa del Nord, dove il ricorso ai farmaci è basso. “Un buon parto ha conseguenze positive sul lungo termine: da noi solo il 20 per cento delle donne allatta, lì almeno il 90 per cento. Molte poi preferiscono il parto in casa”.

Il problema dei medicinali è vissuto anche dalle donne: “Credo che non sempre anestetizzare una donna sia la soluzione migliore”. A parlare è Alessia interruzione di gravidanza nel 2011. Durante una visita di routine il medico pronuncia la fatidica frase “non c’è battito”, da lì l’induzione è obbligatoria. “Ho travagliato sotto farmaci, non sentendo dolore, né fisico, né mentale. Poi è arrivata la dilatazione necessaria per far uscire un corpicino di appena 1,575kg e via in sala parto”.

L’hanno sedata in anestesia totale per dieci minuti, giusto il tempo di partorire. “La mia gravidanza si è interrotta bruscamente con una mascherina sul viso”. Pochi, come quelli che Alessia ha passato con sua figlia: “L’ho tenuta in braccio solo il tempo per una foto e per intuire che aveva le mani identiche alle mie”.