Il ricordo
Milan Kundera, la leggenda che si fece fantasma
Libri cult. L’eredità della grande letteratura mitteleuropea. L’ostinata distanza dalla scena. Perché la vita è altrove, ci ha insegnato: nelle piccole cose. Nello stupore quotidiano. E nella libertà
Ci vuole un gran talento anche per sparire. Nella lunga stagione dell’esserci, il signor Milan Kundera (1929-2023) aveva scelto di non esserci. O non fino in fondo, non interamente. Un nome in codice su un citofono. Nessuna intervista. Nessuna dichiarazione. Nessuna comparsata. Pare che per farsi rispondere al telefono, il vecchio telefono fisso, bisognasse fare squilli in codice: prima uno, poi due. Allora lui avrebbe alzato la cornetta. Ma la vita è altrove, come ci ha insegnato; è anche altrove – e allora forse bastava aspettare che chiamasse lui.
Kundera, per tempo, aveva scelto di esistere solo attraverso le parole scritte. Come quelle del romanzo ultimo, “La festa dell’insignificanza” (Adelphi), pubblicato dieci anni fa. Le pagine – leggerissime, insostenibilmente leggere – emanavano un curioso distacco dalla vita, una saggezza ironica da filosofo antico. Un inconsueto romanzo-trattatello: il confondersi della narrazione con la meditazione, la sosta riflessiva. I personaggi - lui li chiamava gli eroi - continuamente dialogano, si confrontano, si scontrano. Su cosa? Sulla vita, sulle piccolezze della vita. C’è un uomo che riflette sugli ombelichi scoperti delle ragazze. C’è un suo amico che pensa ai quadri di Chagall. C’è un altro uomo che scopre di non avere un tumore. Ce n’è un altro che è un seduttore seriale ormai invecchiato. Guardano il mondo, lo attraversano, ci ragionano su, con una buffa svagatezza, come se fino in fondo niente potesse essere preso sul serio: «Nella vita le persone si incontrano, chiacchierano, discutono, litigano, senza rendersi conto che si rivolgono le une alle altre da lontano, ciascuna da un osservatorio situato in un luogo diverso del tempo». Il vecchio Kundera descriveva i suoi personaggi con un’aria divertita, come gli attori di una commedia, come marionette. Non accade nulla: è solo la vita che passa, la vita di ogni giorno, i pensieri buoni o crudeli che ci attraversano. Siamo una folla di gente anonima divisa fra i «chiediscusa», quelli che vivono schiacciati dal proprio senso di colpa, e quelli che aggrediscono e riescono a far sentire in colpa gli altri. E poi? Che cosa conta davvero? La ricerca, più che della felicità, di un hegeliano «eterno buonumore»: l’unico stato d’animo che abbia senso conquistare, di fronte all’insignificanza di tutto. Kundera nichilista? Tutt’altro. «L’insignificanza, amico mio, è l’essenza della vita. È con noi ovunque e sempre. È presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per riconoscerla in condizioni tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome». E soprattutto, sosteneva Kundera, bisogna amarla. Forse per questo ha scritto quel luminoso apologo corale, al cui centro c’è la sorprendente e tenerissima storia di un funzionario di Stalin malato di prostata. Di fronte a questo poveretto, la crudeltà di Stalin fa un passo indietro - al punto che dedica a questo «inutile» signor Kalinin il nome di una città russa. L’insignificanza non uccide la tenerezza, anzi. Non è già questa una grandiosa conquista?
Per un intellettuale ceco espulso dal partito comunista e riparato in Francia dev’essere stata, in effetti, eroica: segno di una libertà mentale inattaccabile. La capacità di librarsi sopra il mare plumbeo dell’ideologia per difendere un senso della vita minima, concreta – quella fatta di corpi che si sfiorano, si danno appuntamenti, si baciano, fanno l’amore. Ricordano e parlano e parlano e parlano. Qualche volta dimenticano. Si dimenticano. Poi magari si ritrovano, ed è imbarazzante. Ma in qualche modo anche felice: purché i sensi siano all’erta. Incendiati, talvolta. Il giovane poeta Jaromil, nel romanzo “La vita è altrove”, per dire, compone un numero incalcolabile di poesie per il sesso della sua ragazza. «Aveva fatto di quell’organo creato per il concepimento e la copula un oggetto vago e un tema di giocose fantasticherie». In una poesia lo paragona a un orologio che fa tic-tac al centro del corpo di lei, in un’altra immagina di essere una pallina che precipita in quell’orifizio, altre volte lo rappresenta come «una casa di creature invisibili». Ci vuole coraggio a non perdere uno stupore sensuale nella vita che chiamiamo quotidiana. E forse quella insostenibile leggerezza dell’essere, diventata brutalmente un proverbio, è meno a portata di mano di quanto non sembrasse negli anni spensierati in cui il romanzo uscì. Kundera fa girare tutte le frasi intorno alle piccole insopportabili incombenze, all’impotenza (fisica, sessuale, mentale), ai blocchi di paure e di angosce che non riusciamo ad aggirare. Suppone e ci fa supporre che l’amore – l’amore della vita – possa, debba essere «qualcosa di leggero, qualcosa che non ha peso». Ma quando? Ma come? Forse solo la musica è senza peso. E può diventarlo il narratore (non a caso Calvino evocava Kundera nella sua lezione americana più nota): il narratore che così spesso viene messo in scena come una controfigura. Uno che crede ai suoi personaggi ma non troppo, che si fida ma non troppo. Alla fine, congedandoli, congeda sé stesso. Sparisce con loro.