Dal 18 al 22 maggio torna la rassegna internazionale dedicata alla lettura. Duemila eventi, grandi ospiti. E spazi nuovi, come la Pista 500 sul tetto del Lingotto. Parla il direttore, alla sua ultima edizione prima dell’arrivo di Annalena Benini

Quando arriva a Roma, a minimum fax, è lo “Straniero” proprio come la rivista fondata da Goffredo Fofi e il premio letterario che si aggiudica nel 2001: si è laureato in Legge a Bari, scrive, fa il ghostwriter, ma appena si ritrova a dirigere la casa editrice la trasforma in un punto di riferimento nella ricerca letteraria.

Un riconoscimento dopo l’altro Nicola Lagioia vince nel 2015 il premio per eccellenza, lo Strega, con il romanzo “La ferocia”, che dedica, chiamandola sul podio come Rocky Balboa la sua "Adrianaaa”, alla moglie Chiara: la scrittrice Chiara Tagliaferri. E anche se nel frattempo dirige collane, conduce alla radio, seleziona film per la Mostra del cinema di Venezia, quando viene nominato direttore del Salone del libro, nel 2017, torna a essere uno straniero. Riprende la valigia e si trasferisce a Torino: per capire bene i meccanismi della manifestazione e di quella politica che vuole dire la sua, ricorda ora, alla vigilia della 35° edizione del Salone.

L’ultima da direttore, con un consenso cresciuto anno dopo anno. E un pubblico che ha rafforzato l’amore per la rassegna: da 144 mila presenze nel 2018 a oltre 168 mila nel 2022. Ma per lo straniero Lagioia la vittoria è un’altra: «Mi auguro che oggi il Salone non sia più considerato solo dei torinesi, ma un evento italiano e internazionale».

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Dopo mesi di polemiche e fumate nere, sarà Annalena Benini a prendere il suo posto dal prossimo anno. Non ha avuto la tentazione di restare? Ernesto Ferrero...
«È rimasto in carica 18 anni, certo. Ma erano tempi diversi. Ho vissuto grandi sfide: quando sono arrivato, nel 2016, il Salone praticamente non esisteva più, migrato a Milano con Tempo di libri. Non c’era quasi più un nucleo di lavoro. Abbiamo riportato il Salone al Lingotto, ma ci siamo ritrovati a fare i conti con il fallimento della Fondazione. Eravamo trionfanti, ma senza contratto. Siamo andati avanti lo stesso, finché non c’è stata l’acquisizione da parte dei vecchi fornitori, gli attuali proprietari, che si sono ripresi il marchio. Ricominciando da zero».

Nel 2019 fu al centro di proteste per l’annunciata presenza di Altaforte, casa editrice vicina a Casapound, esclusa dopo la defezione di molti autori. Poi l’epidemia.
«Sostenere tutto ciò, anche dal punto di vista psicologico, non è stato facile. Quando mi proponevano di restare dicevo: ma prima posso prendermi una pausa di un paio d’anni? Poi magari ritorno».

Quanto ha avvertito in questi anni l’influenza della politica?
«Premessa: il Salone non è la Rai, il Salone è per il 60 per cento dei privati, per il resto del Comune di Torino, la Regione, la Compagnia di San Paolo, il Ministero. La politica prova a influenzare. Ogni tanto arrivava qualche proposta di consulenza, ma è importante far capire subito che “non attacca”. Una volta fui convocato dalla Regione Piemonte con l’accusa di fare un Salone troppo di sinistra. Risposi con una lezione di editoria. Lo sapete che cos’è la Gfk, domandai. Sapete che una “fiera” del libro è diversa da un “festival”? A una fiera vanno gli editori, che pagano gli stand e vogliono rientrare dell’investimento. Facciamolo questo gioco cretino di destra e di sinistra: leggiamo i 5.000 titoli più venduti e collochiamoli da una parte e dall’altra. Il fatto che Zerocalcare riempia l’Auditorium non lo decido io, lo decide il pubblico. E se il 90 per cento degli scrittori è di sinistra, o non gliene importa di schierarsi, è un fatto. Questa è una fiera da almeno 100mila persone. Se si fanno certe scelte non è per un capriccio del direttore».

Insomma, rivendica neutralità?
«Rivendico qualità. E pure quantità. Michel Houellebecq è ritenuto reazionario: è venuto al Salone. Idem per Cormac McCarthy: magari venisse! Se il pensiero conservatore è interessante merita ascolto».

Regali alla neodirettrice una cosa che ha imparato stando al comando del Salone.
«C’è solo un consiglio che posso darle: avere chiaro che il referente di un direttore non è né la politica né la proprietà. Sono gli editori, le autrici e gli autori, il pubblico. Con loro dalla tua parte, nessuno può condizionarti. Le faccio ancora un esempio su cos’è il Salone: andai a trovare Roberto Calasso per convincerlo a tornare. Ero emozionato, avevo i suoi libri in mano. Le assicuro che non abbiamo parlato un istante delle “Nozze di Cadmo e Armonia”. Già nell’accogliermi sventolava i rendiconti delle edizioni passate, i soldi persi e quelli guadagnati. Se si conoscesse di più come funziona l’editoria si perderebbe meno tempo a parlare di destra e di sinistra».

Perché c’è un’industria culturale in gioco, obbligata a pensare alla sua sostenibilità.
«Certo, noi esercitiamo un filtro, ma non puoi pretendere autori solo secondo il tuo gusto. Perché il pubblico viene al Salone per vedere Rachel Cusk, ad esempio, ma anche Alberto Angela. E tu chi sei per dire no? Il Salone del libro è una festa popolare, per lettori forti ma anche per chi non comprerebbe un libro in un anno e ne acquista qualcuno proprio lì. Devi avere rispetto di tutti. Abbiamo la classe politica che legge meno d’Europa e che ignora la diversità tra lettori, la difficoltà di leggere nei paesini di provincia, la vivacità dei gruppi di lettura».

Lei ha sempre valorizzato il lavoro di squadra, mettendone su una con nomi molto apprezzati.
«Ho seguito diversi consigli a Torino. Uno ho voluto ignorarlo: concepire il Salone come una struttura piramidale. Manco morto, ho detto: io non lavoro così. Le strutture reticolari funzionano meglio. Contare su un gruppo di consulenti così valido è stato bello e complicato: non è facile tenere testa a scrittrici come Valeria Parrella, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Claudia Durastanti, solo per fare qualche nome. Però, una volta allineati, ogni difficoltà ha avuto alle spalle una forza incomparabile».

Mi dica di getto un incontro che conserva nel cuore?
«Quello con Bernardo Bertolucci. Intervistato da Luca Guadagnino con Elena Stancanelli, nel bel mezzo dell’incontro si fermò e ci propose di metterci a meditare. Fu incredibile, calò il silenzio in un istante, a dimostrazione della magia che si può creare con le parole. Un altro incontro straordinario fu con Edgar Morin. Lo invitammo pensando che non sarebbe venuto, aveva già 99 anni, invece si presentò e fu grandissimo. E poi ho tanti ricordi legati al Salone Off: il tango di notte; il concerto di Iosonouncane, seguitissimo alle 5 del mattino. Un’altra cosa stupenda mi accadde nel 2017: in un clima di incertezza, all’improvviso mi sentii abbracciare alle spalle: era Inge Feltrinelli, gioiosa, con quella sua energia incredibile che mi fece sciogliere di emozione».

Un rimpianto, invece: chi non è riuscito a portare?
«Camilleri. Era sul punto di venire, ma non fece in tempo. Il momento più brutto? La pandemia: ricordo una riunione drammatica per decidere se andare avanti. Decisi di scommettere che la campagna vaccinale sarebbe andata bene: il contrario era un pensiero contro il futuro. “D’accordo”, dissero: “Cosa siete disposti a rischiare?”. Lavorammo gratis per mesi. L’audacia fu premiata».

Il Salone può crescere ancora?
«Dovrebbe continuare a essere com’è. Però poi agire da agenzia culturale e organizzare eventi in tutta Italia».

Un Salone itinerante?
«No, il Salone è a Torino e lì deve restare. Ma ha sviluppato un tale know-how, è in contatto con tutti gli scrittori del mondo, ha così tanta capacità di attrarre pubblico che potrebbe dare vita ad altro. Sarebbe bello se diventasse una scuola di formazione».

Lagioia, c’è una guerra terribile a due passi da noi. Non le viene il dubbio che mettere in scena dialoghi e parole sia cosa inutile?
«L’arte c’è sempre stata sotto le bombe. La poesia europea ha avuto una svolta proprio durante la Prima guerra mondiale, quando Ungaretti cominciò a scrivere versi dal fronte. È assolutamente sensato ritrovarci in un Salone, significativamente aperto da Svetlana Aleksievič. Certo non dà un contributo alla fine della guerra. Ma serve a restare umani: rinunciare a occasioni così vuol dire impoverirsi. C’è bisogno di comunità».

E magari di promuovere davvero la lettura.
«Ecco il punto. L’editoria è uno dei pochi mondi culturali che si sostiene da solo, diversamente dal cinema che vive di finanziamenti. Non penso a provvedimenti di assistenzialismo, ma di aiuti al settore sì, con una legge che colleghi editori, librai, bibliotecari, scuole. Questo mi aspetterei dalla politica che invitiamo ogni anno. Abbiamo traduttori tra i migliori del mondo e i peggio pagati d’Europa. L’Italia sarà ospite a Francoforte nel 2024: come sfrutteremo l’occasione? La politica di questo dovrebbe occuparsi: di librerie che chiudono per affitti alle stelle, di editori che resistono, di scuole che vorrebbero fare di più ma sono disastrate: mettiamo tutto questo a sistema».