Brivido, sfida, frescura elettrizzante. La malattia, poco raccontata, attraversa romanzi, film, serie tv. Dalla Valentine di Florence Noiville ai ladruncoli di “Trinkets”

La cleptomania è una malattia poco raccontata dagli scrittori, ha una grande tradizione più che altro cinematografica. A parte qualche classico del giallo, come un “Perry Mason e la signora cleptomane” di Erle Stanley Gardner (1938), un “Poirot si annoia” di Agatha Christie (1955) e “Marnie” di Winston Graham (1961), reso immortale da Hitchcock, a livello letterario il genere è poco battuto. Si ricorda un piccolo gioiello giovanile di Truman Capote, un racconto che si intitola “Hilda” contenuto nella raccolta “Dove comincia il mondo” in cui in poche pagine il profilo della cleptomane (sono donne, soprattutto) è già ben tracciato. Hilda è una sedicenne di buona famiglia (spesso si tratta di borghesi, senza problemi economici) che frequenta un buon college e viene convocata dal preside perché è stata scoperta a rubare negli armadietti delle compagne. «Non è che io non voglia dirle perché ho rubato quelle cose; è solo che non so come dirglielo, perché non lo so neanch’io», risponde la ragazzina. In un tocco Capote raggiunge il problema e con la stessa velocità Hilda riesce a rubare un oggetto anche dalla scrivania del preside.

 

Altro personaggio memorabile è la Sasha di Jennifer Egan che, nel libro con cui ha vinto il Pulitzer, “Il tempo è un bastardo”, va da uno psicologo per cercare di curare la sua cleptomania. «La sfida personale», la chiama. E qui si mette già l’accento sul bisogno di adrenalina: «Accettare la sfida, fare il salto, tagliare la corda, fregarsene della prudenza, vivere pericolosamente». E poi c’è Oliver, il protagonista di “La chitarra blu” di John Banville, un pittore che ha «un deplorevole segreto»: è «uno che si impossessa di inezie trascurate», cioè ruba le cose. «Rubare e amare hanno molto in comune», scrive, «che sensazione di frescura elettrizzante». E il furto della moglie del suo migliore amico diventa una naturale conseguenza di questa patologica passione.

 

Ma solo con Florence Noiville, una delle maggiori scrittrici francesi, e il suo “La cleptomane” (traduzione di Alessandro Mola, uscito per Garzanti) viene dedicato un intero romanzo alla più trascurata delle manie, di cui nemmeno Freud si occupa. Invece è un’autentica dipendenza.

 

A metà fra commedia e noir, fra un colpo di scena e l’altro, la storia di Valentine è un dramma. È la storia di una persona malata. Noiville, con eleganza e profondità, ha sempre raccontato i disturbi mentali. Interessata alle neuroscienze, che spiegano quasi tutto, entra in quel che resta di misterioso e incomprensibile dell’animo umano, là dove solo la letteratura può arrivare.

 

La cleptomania è una questione di eccitazione. «Istanti magnetici», li chiama Valentine de Lestrange, aristocratica parigina, figlia e nipote di nobildonne a loro volta cleptomani (quindi è una malattia ereditaria), purtroppo sposata con un ministro delle Finanze che ha costruito la sua credibilità politica sull’onestà. È come la contessa de Boves di Zola, che ruba ai grandi magazzini, «tormentata da un bisogno frenetico, irresistibile». Già Zola, nel 1883, parla di “crisi” che si trasformano “in voluttà” e di “nevrosi”, ne “Il paradiso delle signore”, ma ai tempi di Noiville esistono altri strumenti per capire certe pulsioni. E lei li usa, con precisione da entomologa.

 

Non è solo questione di una valigia rubata all’aeroporto con «una bella presa» o di una sciarpa senza antitaccheggio “sfilata” da Max Mara. Noiville non è interessata al fenomeno sociale, per altro diffuso. No. A lei interessa la mente dei suoi personaggi, e in termini scientifici.

 

Ogni cosa succede «a una velocità demoniaca»: una forza si impadronisce di Valentine mentre prende possesso dell’oggetto. «Pochi secondi di attesa, elastici ed eccitanti», che lei conosce nell’intimo, «fisicamente». «Frammenti di tempo fuori dal tempo» in cui tutto è in equilibrio e sembra possibile. Valentina ruba e si sente viva. Non prova vergogna, ma un «un piacere intenso». Ma perché? Lo scopre solo quando si accorge di essere malata: c’entra la scomparsa di suo padre e forse anche altre cose che deve capire. Impadronirsi di oggetti di nessuna importanza è un modo di lottare contro la morte?

 

Naturalmente viene beccata l’unica volta che non ha voluto rubare. «Insolvenza fraudolenta»: solo perché si è dimenticata di pagare la benzina. È quasi divertente, ma questo la costringe a farsi altre domande. Fra le tante sorprese, la maggiore forse arriva da quel suo cervello, programmato in base a un circuito di ricompensa, che spiega le dipendenze. Non è un problema di volontà, è una patologia. Tutta colpa di un piccolo nucleo del cervello che si chiama “corpo striato”. Lo striato è diviso in tre parti. La prima, il “nucleus accumbens”, è il centro della ricompensa. Ma ci sono le altre due: «Il caudato regola quelle che chiamiamo azioni dirette a uno scopo, il putamen le abitudini, gli automatismi e le compulsioni». E così la protagonista capisce che la battaglia è «fra lei e il suo putamen impazzito». Le altre, con i suoi ricordi, con le sue speranze e le sue delusioni, vengono dopo. Ecco la magia di Noiville: il cervello dell’uomo è il suo destino.

Il cinema è sempre stato attratto dalla cleptomania. Su tutto spicca il già citato “Marnie” di Alfred Hitchcock (1964). Ma il percorso è lungo, si comincia da un film muto del 1905 “The kpleptomaniac” di Edwin S. Porter per arrivare alla serie Netflix, “Trinkets”. In mezzo, le declinazioni sul tema sono tante: “Cleptomania” di Don Boyd (1995), “Klepto” di Thomas Trail (2003) “Kleptomami” di Pola Beck (2017), per citarne alcune. E anche le star danno il loro contributo: memorabile Winona Ryder beccata a rubare vestiti da Saks Fifth Avenue per un totale di 5mila dollari. Colpa del putamen, sicuro.