Chi rimane nei paesi d’origine perché ama la tranquillità. Chi preferisce una vita nella natura. Sempre più giovani scelgono di abitare fuori dai grandi centri. Ecco le loro storie. “Occorre fantasia, dedizione e immaginazione. Prima ancora di farlo, il nuovo mondo dobbiamo immaginarlo”

Sì, lo spopolamento delle aree interne, dove vive il 22 per cento della popolazione nazionale, quasi il doppio al Sud e nelle isole, resta un problema serio. Lì gli abitanti invecchiano, si fanno meno figli e i servizi non sono certo il non plus ultra. Le strade sono dissestate, le prospettive occupazionali nebulose e le occasioni mondane quantomeno rarefatte. Eppure sempre più ragazzi decidono di rimanere nei piccoli borghi dove sono nati e dove hanno vissuto anche i loro genitori, i loro nonni. Quelli che non erano emigrati al Nord o all’estero. Sta andando in scena un silenzioso controesodo, un’antifuga dei cervelli non mappata dal dibattito pubblico. Un po’ ha inciso il periodo sabbatico del Covid: parecchi, riaffiorati dagli atenei o per lo smart working, hanno scoperto che in fondo, grazie alla Rete, si è connessi dappertutto. Li chiamano “nuovi montanari”, neo-rurali.

Una porzione non trascurabile dei millennials e della generazione Z che permane a presidiare le remote e dimenticate terre alte, a bassa densità demografica. Per provare a fotografarli è da poco uscito il libro collettivo “Voglia di restare. Indagine sui giovani nell’Italia dei paesi” (Donzelli). Il saggio dà conto di una ricerca, la prima del genere, su un campione di oltre tremila persone tra i 18 e i 39 anni residenti nella penisola periferica. Leggiamo che sono per lo più laureati (il 46 per cento), indifferentemente donne e uomini e a unirli è il desiderio di quella che il sociologo Vito Teti ha definito “restanza”. Una categoria antropologica non intrisa di acquiescenza, «non è una forma inerziale di nostalgia regressiva, non è un invito all’immobilismo». Tutt’altro: è un sentimento attivo che sottende a «nuovi progetti e aspirazioni», da rivendicare in loco. I restanti convinti sono un buon 50 per cento degli interpellati, che oltrepassano di slancio il 60 per cento se consideriamo quelli necessitati a farlo.

C’è chi resta perché ama la tranquillità lontano dal caos, lo smog e la solitudine della metropoli. C’è chi resta perché vuole sperimentare nuovi stili di vita comunitari, rallentati e dialoganti con la natura.

Marzia Verona, autrice del blog “Storie di pascolo vagante”, vive in Valle d’Aosta dal 2017, a mille metri di quota. Si dedica all’allevamento e alla divulgazione. «Oggi in montagna si possono avere le cose essenziali per vivere tutto sommato comodamente: chi rimane sa che esistono ancora delle difficoltà di fondo, legate al clima o alla posizione geografica per esempio, ma spesso è in grado di costruire il proprio futuro proprio a partire dalla consapevolezza, molto concreta, delle proprie risorse in rapporto all’ambiente circostante». È la cosiddetta “vocazione territoriale”, a cui bisogna sovente riallineare il proprio curriculum. E c’è chi resta perché la vita costa meno e vuoi mettere la bellezza incontaminata dei paesaggi. C’è chi resta perché ha aperto una cooperativa turistica o una start up culturale che sta macinando insperati successi.

Trentenni come Irene Valenti, educatrice e guida ambientale, specializzata alla Bicocca di Milano. Dopo aver viaggiato ai quattro angoli del pianeta, dieci anni fa è tornata nella natia Pennabilli, Appennino Romagnolo, nell’Alta Valmarecchia. E non se n’è più andata. Ci dice: «È avvenuto un po’ per caso. Avevo appena finito di studiare. Cercavo il mio posto, anche professionale, nel mondo e ho trovato spiragli che in città avrei fatto forse fatica a reperire». Qui ha fondato e presiede l’associazione “Chioccola la casa del nomade”, che si occupa di educazione, formazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale. Una rete di competenze glocal: protagonista un gruppo di giovani erranti digitali e offline, cosmopoliti di fatto, che condividono idee, spazi e opportunità per collaudare un modo inedito di abitare la montagna. A Pennabilli Irene organizza festival, eventi tradizionali e un revival di iniziative legate all’agricoltura, il core business del territorio. «Non nutro una visione edulcorata delle montagne. Penso che conti trovare un equilibrio. E io qui l’ho raggiunto. E quando ho voglia di città, Rimini dista solo 50 chilometri».

C’è chi sta un po’ sul monte e un po’ in the city, è un “metromontano”, non soltanto per l’eventuale urgenza di un ospedale a tutti gli effetti. E c’è chi resta perché ha ereditato la bottega di famiglia e la pastorizia non è poi così male. C’è chi resta perché ha messo su famiglia, accettando il primo lavoro utile, la “disoccupazione d’attesa” per la perpetuazione del ceto medio è un lusso urbano post-fordista. C’è chi resta perché vuole respirare sano, e mangiare altrettanto. Aggiunge Vito Teti: «Per far sì che il restare non si configuri come un atto di eroismo individuale, occorre fantasia, dedizione e immaginazione. Prima ancora di farlo, il nuovo mondo dobbiamo immaginarlo».

Denisa Rizzuto ha 30 anni ed è rimasta per i rapporti umani, davvero umani. Ci si conosce tutti. «Trovo straordinario il ritrovarsi giorno dopo giorno nel bar della piazza del paese, insieme ai ragazzi e agli amici delle altre generazioni. Si parla del più e del meno, della vita locale, della cronaca universale». Denisa vive in Abruzzo, a Pescina. Si è laureata in ingegneria elettronica a Roma ed è rientrata alla base durante il lockdown. Si divide con Pescara, dove ha trovato lavoro, ma vuole trascorrere il resto dei suoi giorni nel suo paese, «è un richiamo inesorabile. La semplice meraviglia di salire sulla montagna dove si staglia la vecchia torre e mettermi a correre».

A proposito di cambi di paradigma, di turismo alla rovescia. Due anni fa, insieme ad altri ragazzi “restanti”, s’è inventata il Festival dei giovani dell’Appennino. Il 5 agosto si terrà la terza edizione. In arrivo delegazioni di under 40 dall’entroterra dell’intero Stivale. «Allontanarsi per poi tornare, per dirla con Franco Arminio».

A pochi minuti d’auto da Pescina si trova Aielli, 1.500 anime. Oggi molti l’associano al prodigio di Borgo Universo. Decine di murales realizzati dai più celebri artisti internazionali hanno restituito un cuore pulsante al centro storico morente. Arrivano decine di migliaia di turisti. Antonio Curitti, 34 anni, due lauree umanistiche ed esperienze all’estero, è tornato qui e si è messo a fare il contadino. «È il riscatto dei nipoti dei cafoni di “Fontamara”, che avevano vissuto ai margini della geografia e della storia. Siamo usciti dal buio dei secoli».

E pazienza per le angustie, per esempio zero discoteche, centri commerciali e multisala cinematografici, nessun locale e boutique alla moda. «Nel suo “Vino e Pane”, Ignazio Silone, il nostro concittadino più illustre, scrisse: “Arriva sempre un’età in cui i giovani trovano insipido il pane e il vino della propria casa. Essi cercano altrove il loro nutrimento. Il pane e il vino delle osterie che si trovano nei crocicchi delle grandi strade possono solo calmare la loro fame e la loro sete, ma l’uomo non può vivere tutta la sua vita nelle osterie”», conclude Denisa Rizzuto.