Persone comuni portate in scena e obbligate a inscenare i soprusi di agenti in divisa. È la provocazione di Romeo Castellucci nel suo Bros

Pochissimi artisti riescono a turbarmi come lui, a volte perfino a farmi stare male, a provare cioè un senso di malessere che deriva dall'aver assistito a qualcosa che mi riguarda da vicino. È il segnale che Romeo Castellucci - tra i registi contemporanei più interessanti che abbiamo in Italia sebbene i suoi spettacoli vadano in scena più all'estero che qui da noi - ha colto nel segno.

 

Ogni volta i suoi lavori ci costringono ad interrogarci. Su cosa? Sul nostro rapporto con la legge e sul nostro senso di responsabilità, per esempio, come in questo caso. “Bros”, di recente andato in scena al Teatro Argentina di Roma (una produzione Societas), è quasi un esperimento antropologico. Non sono provocazioni, bensì lavori talmente impregnati di realtà che non possono lasciarci indifferenti, anzi, continuano a vivere oltre il palcoscenico.

 

I protagonisti sono un gruppo di uomini chiamati “dalla strada”, reclutati cioè un paio di giorni prima dello spettacolo e invitati a seguire un indice comportamentale («Sono disposto a diventare un poliziotto in questo spettacolo. Sono disposto a credere di essere un vero poliziotto», etc...). Ma solo pochi minuti prima di andare in scena sapranno esattamente cosa fare, e cioè indossare una divisa da poliziotto (di quelle alla Buster Keaton, da film muto) e un auricolare senza fili dal quale riceveranno ordini.

 

Immersi in un’atmosfera dark, i poliziotti si muovono come se fossero un corpo unico, eseguono senza riflettere, idolatrano un totem, venerano simboli con i quali Castellucci gioca (dall'immagine di un babbuino al ritratto di Samuel Beckett) trasformando il potere in una farsa. E quando a terra un uomo si agita sotto i colpi di un manganello, basta l'approvazione di uno per far applaudire tutti. Ma quelle bastonate ripetute quasi all'infinito ci parlano di un mondo che ogni giorno i nostri telegiornali descrivono: dalle violenze nelle caserme agli assalti con le camionette.

 

Siamo noi i responsabili di tanta violenza? Domina l’agire, con sottofondo sonoro del fedele Scott Gibbons, senza alcun pensiero, e senza nessuna parola, tranne gli stendardi scritti da Claudia Castellucci, e le frasi incomprensibili del profeta Geremia (Valer Dellakeza), che con il suo abito bianco nel nero della scena forse rappresenta l'unica speranza ancora possibile: spezzare il silenzio di uno sguardo colpevole.

 

APPLAUSI
Chi non ha amato il film di Peter Weir “L'attimo fuggente”? Se volete riascoltare in teatro la storia che ha commosso più generazioni segnate queste date: 3-7 maggio (Milano, Teatro Franco Parenti) e 9-14 maggio (Roma, Sala Umberto). La versione italiana del testo di Tom Schulman andrà in scena con la regia di Marco Iacomelli.

 

E FISCHI
Per alcuni teatri italiani è già una realtà, ma estendiamo l'invito a tutti: perché non programmare gli spettacoli alle 19.30 (come avviene per esempio in Inghilterra) anziché alle 21? Soprattutto quando si tratta di pièce molto lunghe, il rischio di addormentarsi diventa concreto. E alla fine dello spettacolo cosa ci resta?