Roma, gli amici intellettuali, la scrittura e il mistero, il panorama letterario pieno di nebbia senza nessuno che si distingua. Dialogo con il grande scrittore da poco scomparso

Chiuso nella sua bella casa all’ultimo piano di un palazzo nobiliare di Roma, Raffaele La Capria si dimostra soavemente indifferente agli allarmi della pandemia e quanto accade nel mondo. L’età gli ha regalato quella leggerezza ondivaga del pensiero che annulla gli affanni del presente e sfuma i ricordi del passato. Ma l’autore di quel capolavoro del Novecento che è “Ferito a morte” riesce ancora a parlare di sé vagando dalla giovinezza napoletana a quella che chiama “la mia dolce vita romana”, passando dai libri che ha scritto alle persone che ha amato, fino al mistero che lo aspetta in un epilogo che non gli fa paura. Non ha più la grinta della giovinezza e il tono sicuro della maturità, ma non mostra fastidio per le sue amnesie, anzi spesso ne fa un vezzo nella conversazione: «Le dispiace ricordarmi il titolo di quel libro che mi ha reso famoso?». Nelle risposte è però asciutto e conciso, più di quanto sia mai stata la sua prosa. Come se gli anni gli avessero fatto anche il dono dell’essenziale.

 

La Capria, che cosa pensa di questo virus che ci ha cambiato la vita?
«Non me ne curo».

 

Ma anche lei avrà dovuto stare chiuso in casa, uscire con prudenza…
«Per me non ha fatto differenza. Resto comunque a casa. Sono sempre stato una creatura sedentaria e libresca. A volte leggo, per lo più ricordo».

 

Non soffre la solitudine?
«Lei si riferisce al fatto che un anno fa ho perso mia moglie, Ilaria Occhini. Ma io non potrei sentirmi solo in questa casa perché la casa stessa è Ilaria, nelle pareti, nelle tappezzerie, in ogni dove».

 

Quando vorrà uscire, troverà però una città diversa: poca gente in giro e quasi tutti con una mascherina sul viso.
«Che vuole che sia? Per me Roma era già una città di fantasmi. Con il passar del tempo le ho dato confini sempre più stretti, poche strade vicine, poche piazze per le mie brevi passeggiate. Ma tanti fantasmi».

 

A che cosa si riferisce?
«Ai miei amici scrittori, attori e artisti che non ci sono più. Li accolgo con tenerezza. Sono abituato da sempre ai fantasmi».

 

Come mai?
«Perché sono nato e cresciuto a Napoli e per di più da ragazzo abitavo a Palazzo Donn’Anna, un luogo che rappresentava l’anima della città. Lì convivevano in armonia i pescatori, i nobili, i borghesi e anche i fantasmi».

 

Ne ha visti molti?
«Non direttamente, ma quando rientravo di sera avevo sempre la sensazione che qualcuno di loro mi seguisse».

 

Lei ha scritto che intrattiene con Napoli un poetico litigio. Che cosa vuol dire?
«È un conflitto di sentimenti. Avrò sempre nostalgia di Napoli che per me è un paesaggio spirituale. Anche soltanto la visione del Golfo mi parla, ma non posso dire lo stesso della cultura napoletana».

 

Eppure nel bene e nel male è una cultura notevole. Perché non le piace?
«È inautentica e accomodante, è nata dalla grande paura che la borghesia ha avuto della plebe. Anche la lingua è stata addomesticata. Prima c’era la truculenza di Basile, dopo l’uomo bonario di De Filippo. Anche per questo ho lasciato Napoli per venire a Roma quasi settant’anni fa».

 

Fece parte di una diaspora intellettuale. Se ne andarono anche Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Pasquale Prunas, Giuseppe Patroni Griffi. Come mai la maggior parte di voi scelse di vivere a Roma?
«Perché allora era una città importante, colta, effervescente, una vera capitale all’apice della sua belle époque. Ognuno tende a compiacere la propria giovinezza, ma quelli erano dati oggettivi. C’era davvero una dolce vita».

 

Ce la descriva.
«Andavi in un bar di via Veneto e ti trovavi a conversare con Ennio Flaiano o Goffredo Parise. Trovavi lavoro alla Rai, ti mettevano in una stanza con Enzo Golino ed Enzo Siciliano e scoprivi che nella stanza accanto c’era Carlo Emilio Gadda. Mangiavi ai tavoli comuni da “Cesaretto” in via della Croce e li ritrovavi tutti lì. Poi al cinema o al teatro. E la notte si finiva a via Veneto...».

 

Tra loro chi le manca di più?
«Franco Rosi perché era il più buono, poi anche Peppino Patroni Griffi, ma in modo diverso».

 

Perché?
«Era omosessuale e per trovare un’intesa con gli omosessuali bisogna essere come loro. Siamo stati molto amici, ma mancava sempre qualcosa perché io non avevo quel lato».

 

In quel clima romano lei ha vinto un premio Strega con il suo romanzo ancora oggi più venduto, “Ferito a morte”. Poi ha scritto molti altri libri, ma viene ricordato soprattutto per quello. È una cosa che la infastidisce?
«No, mi fa piacere perché vuol dire che era davvero un bel romanzo, aveva un andamento musicale nella trama e nella lingua. Era il 1961, vinsi per un solo punto su Giovanni Arpino e tutti dopo, incontrandomi, mi dicevano: “Se non ti avessi dato il mio voto, non avresti vinto”. Facevo finta di crederci e ringraziavo».

 

Quando ha capito che avrebbe fatto lo scrittore?
«Ho sempre saputo di essere diverso. Sentivo che qualcosa mi chiamava ad alte imprese. Questo qualcosa era la cultura, la scrittura».

 

Nella sua belle époque lei era giovane, famoso e piuttosto attraente. È stato molto amato?
«Ho avuto i miei momenti. Da questo punto di vista è stata una vita piena».

 

E ha molto amato?
«Sì, certo, come tutti i giovani, ma soprattutto ho amato mia moglie Ilaria, una persona particolare non soltanto per la bellezza ma anche per l’intelletto».

 

Era anche un’attrice famosa e ricercata, nipote di un monumento della cultura come Giovanni Papini. Dopo che l’ha trovata, non si è più mosso?
«Più o meno, diciamo molto più che meno. Non mi chieda altro».

 

Non lo farò e passo alla sua stagione pessimistica. Il suo ultimo libro, uscito nel 2016, è una raccolta di scritti che si intitola “Il fallimento della consapevolezza”, un titolo che non dà scampo.
«Infatti non c’è scampo. Descrivo la condizione in cui tutti ci troviamo oggi. Non siamo più sicuri che ciò di cui siamo consapevoli sia la verità».

 

Quando è sopraggiunto il fallimento?
«Quando si è rotta la catena che ci legava alle generazioni precedenti e alla loro cultura. I giovani hanno il diritto e il dovere di uccidere il padre, ma devono conoscere bene ciò che il il padre ha fatto. Non è possibile dire cose nuove ignorando la tradizione. Per questo oggi anche il panorama letterario è pieno di nebbia. Non intravedo nessuno che si distingua».

 

Eppure c’è un fiorire di giovani scrittori e scrittrici. Nessuno che l’abbia interessata?
«La quantità quasi mai è segno di qualità. Non vedo un solo scrittore che possa essere considerato un punto di riferimento, come lo furono anche da giovani Moravia, Calvino, Pasolini...».

 

Posso farle qualche domanda sul tempo che passa, sulla sua età?
«Certo, è comunque la mia vita».

 

Compirà tra poco 98 anni. Avrebbe mai pensato di giungere fino a qui?
«Non mi curo degli anniversari. Corna facendo, in salute non sto male, se avrò fortuna potrei anche diventare centenario. So che tra pochi anni saluterò tutti e me ne andrò, ma adesso sono come quel tizio che cadde dal decimo piano e, arrivato al quinto, disse: finora va tutto bene».

 

L’inevitabile arrivo a piano terra non le fa paura?
«So che dovrebbe farmela perché è la fine di tutto, ma non ci penso. Chi, come me, ha amato molto la vita, sa che la morte è soltanto l’altra faccia».

 

Immagina un aldilà?
«Non le risponderò. Io sono un uomo religioso, ma nel mio modo. Penso che nel mondo la cosa più importante sia il mistero e quando c’è il mistero c’è religiosità».

 

Ha parlato spesso del mistero, ma senza mai dargli contorni precisi. Prima di lasciarci ci dica meglio che cosa intende.
«Il mistero è mistero, mica lo posso rivelare. È qualcosa che sentiamo che c’è ma che non possiamo capire fino in fondo. E poi, se le dicessi di più che mistero sarebbe?».