Ci avvicina agli altri. Mette i muscoli ai desideri. Consola, commuove, riporta l’orgoglio al suo posto. È il potere della lettura. Secondo l’autore di culto

George Saunders è uno dei più grandi autori viventi ed è un uomo gentile (se non lo avete letto, leggete il suo spiazzante discorso agli studenti “L’egoismo è inutile. Elogio della gentilezza”), in ogni frase, in ogni accenno. L’impressione, nella vita come nei suoi libri, è che cerchi di porsi dal punto di vista dell’interlocutore, perché il suo non gli basta. Ora, dopo il Man Booker Prize di “Lincoln nel Bardo” (il primo romanzo dopo alcune raccolte di racconti, di reportage e di saggi affilati), esce in Italia “Un bagno nello stagno sotto la pioggia” (Feltrinelli), che è molto di più di un corposo corso di scrittura attraverso i racconti perfetti di quattro dei più grandi scrittori di tutti i tempi, Turgenev, Tolstoj, Cechov e Gogol: è, innanzitutto, un corso di lettura. Un percorso che indica la via per imparare a leggere se stessi dentro i testi, e quindi il testo che si va scrivendo dentro di noi. Dialogare con lui è come chiacchierare con un amico.

 

“Vorrei che le mie opere commuovessero e cambiassero le persone”, ha scritto. Cos’è per lei la letteratura?
«È un modo per trovare una via per comprendere la vita. Immagino che i nostri grandi scrittori offrano un’imitazione di ciò che Dio potrebbe pensare di noi. Lo scrittore guarda all’attività umana e inizia a raccontarla, il che ce la restituisce in maniera più funzionale e anche amorevole di quanto potremmo fare da soli».

 

Cosa può fare la letteratura, e cosa proprio non può?
«La risposta onesta è che non lo so. Scriviamo per scoprirlo. Possiamo valutare il potere della letteratura osservando l’effetto che ha sulla nostra mente. Prima, la mente è in un certo posto. Iniziamo a leggere e la mente cambia. Alla fine, siamo un po’ trasformati. E questo è tutto: questo è ciò che fa la letteratura. Parlando per me stesso, e se il libro che sto leggendo è un buon libro, mi sento più vigile, più aperto, più interessato a ciò che mi circonda. Poi quella sensazione svanisce, ma almeno so che è possibile. Quindi è molto, in realtà».

 

Ha studiato e lavorato come ingegnere. Credo che punti di vista diversi da quelli umanistici arricchiscano lo sguardo e la lingua: Primo Levi, Gadda, Asimov, o David Quammen…
«Le cose principali che l’ingegneria ha fatto per la mia scrittura sono queste: per prima cosa, mi ha insegnato che sforzo e risultato non sono necessariamente collegati (alla scuola di ingegneria si poteva fare tutto bene in una dimostrazione ma poi rovinare tutto nelle ultime righe); e poi mi ha fatto sentire a mio agio a pensare alle cose in termini di causa ed effetto. Se una storia ti commuove, lo fa per ragioni che dovremmo essere in grado di vedere e sbloccare. Questa consapevolezza mi ha ha reso uno scrittore molto paziente: se non funziona, non posso dire: “Ma ci sto lavorando già da tre anni!”. Se qualcosa non funziona, non è perché non sono un bravo scrittore o non è una storia fattibile - semplicemente non ho onorato adeguatamente la causa e l’effetto del problema».

 

Sono curioso di sapere di più del suo rapporto con la “realtà”, di cui Nabokov diceva essere la sola parola da scrivere tra virgolette. In “Lincoln nel Bardo” usa la realtà e la trasforma a suo piacimento. Nell’ “Era del cervello piatto” scrive reportage spiazzanti. In generale la sua chiave è il tragicomico.
«Penso che quella che chiamiamo “realtà” sia, ovviamente, sempre una faccenda soggettiva. Quindi, non ho alcuna fedeltà al cosiddetto “realismo”, che è solo un’altra forma di esagerazione e compressione, ma che trae un po’ di forza dalla sua somiglianza con il modo in cui il mondo “ci sembra” quando siamo nella disposizione abituale, in cui usiamo il linguaggio per costruire comodi ausili alla vita (“l’autobus sta arrivando”, o “ho fame”). Quando scrivo in modo più “strano” spesso sento di essere più sincero, o almeno di offrire un punto di vista contrario all’abituale. Scrivendo, inizio con qualsiasi vecchia idea e qualsiasi tono (“realismo” o “irrealtà” o altro), poi rivedo e rivedo e, in qualche modo, in quel processo, il pezzo diventa più veritiero, più simile a se stesso. Cosa ha a che fare questo con la “realtà?” Penso che un buon pezzo di narrativa pulisca la macchia dai nostri occhiali. Vediamo le cose come sono, o almeno vediamo che le cose non sono sempre le stesse per tutti (vediamo il mondo attraverso gli occhi di un altro) e, soprattutto, potremmo vedere cose che abbiamo precedentemente non notato, e ottenere un senso più profondo - solo un accenno, in realtà - della logica prevalente delle cose. O, potremmo dire, di Dio».

 

Sembra che i giovani non trovino più come prima nei libri un confronto con i loro problemi.
«Penso che dipenda dal giovane. Alcuni di sicuro sì - li trovo tra i miei studenti e alle letture che assegno. Ma in ogni caso, il modo in cui raccontiamo le storie è sempre stato in evoluzione: finché le persone cercheranno, e cercheranno di diventare più sagge, andrà tutto bene. Penso però che non esista una forma d’arte che consenta un’intimità così vera tra il creatore e il destinatario come fa un libro. Quando leggiamo un grande libro siamo in stretta comunione con un’altra mente umana, sotto l’influenza del linguaggio, un linguaggio che può essere pieno e intimo quanto basta. Non c’è niente di meglio, se cerchiamo rassicurazioni sulla comunanza tra le persone: la mia mente e la tua mente unite dal linguaggio».

 

A proposito di Cechov, lei scrive: “Un’opera d’arte ci tocca quando è sincera”.
«Proviamo “sincerità” quando un artista prende una domanda che abbiamo e risponde onestamente. Quando sembra più preoccupato di scoprire anziché di mettersi in mostra, disposto a essere curioso e rinunciare a essere (semplicemente) “giusto”. Forse quello scrittore o scrittrice non sopporta di essere falso, sa? È più interessato a capire come potrebbe sembrare la cosa a qualcuno che non condivide la sua opinione. C’è un senso di meraviglia in quel tipo di scrittura. Invece di “ecco com’è”, quello scrittore sembra dire: “Bene, lavoriamo insieme, tu ed io, caro lettore, per vedere se riusciamo a scoprire com’è”. Questo è quello che trovo in Cechov - è abbastanza forte da essere insicuro, costantemente insicuro - e questo dà la sensazione che abbia un grande amore per il mondo così com’è».

 

“Un racconto è come un tavolo con sopra degli oggetti”. Qual è, allora, la differenza tra letteratura e realtà?
«Selezionare e dare forma. Una storia - anche molto “realistica” - è il risultato di migliaia di scelte che spostano il racconto lontano dalla quotidianità verso il regno del mito. Ma, se fatta bene, la storia “riguarda” la vita reale, ci fa vedere cose che normalmente potrebbero mancare, verità grandi e piccole, e ci rende consapevoli di quanto velocemente giudichiamo, nella vita reale. Una storia rallenta il tempo e ci dà la possibilità di guardare più da vicino le decisioni morali che vengono prese. Ci mostra la nostra mente e, dentro le storie davvero fantastiche, sento sempre una voce che dice una cosa simile: Potresti amare di più ed essere più paziente?».

 

Cechov diceva che “l’arte non risolve problemi, deve solo formularli correttamente”. Lei scrive: “Questo è quello che fa un artista: si carica di responsabilità”. Quale responsabilità?
«L’artista è responsabile di tutto, per definizione: ogni virgola, ogni frase, ogni cosa consapevole e ogni cosa fortuita. Al di fuori del lavoro, onestamente penso che l’artista abbia le stesse responsabilità di chiunque altro. Ma un artista è qualcuno che ha super-sviluppato la capacità di dimorare all’interno di un’opera, continuare a far emergere nuovo potere e continuare a cambiarla finché non è ciò che vuole che sia. E quando ha finito, ha creato un oggetto del quale le persone del futuro possono pensare: “Ah, non sono la prima o l’ultima a passare da questo posto, e non sono solo”. E consolarsi. O anche: “Nessuno ha mai risolto questo enigma, perché non ne siamo capaci, per nostra stessa natura”. E sentirsi umiliati. E poi... di nuovo nella lotta, ma con un po’ più di muscoli».