La meraviglia dell’architetto americano Frank Gehry ha trasformato un’oscura città industriale in una capitale mondiale del turismo e dell’arte. Un modello di rigenerazione urbana che fa scuola

Il modo migliore per accedere a Bilbao è percorrere la strada che dall’aeroporto arriva fino al ponte La Salve, così chiamato perché fu costruito nell’ansa dell’estuario del fiume Nervión dove i marinai che rientravano in porto vedevano per la prima volta la Basilica de Nuestra Señora de Begoña, pregando il Salve Regina alla Vergine. Superato l’Arcos Rojos di Daniel Buren, il Museo Guggenheim vi apparirà davanti avendo la meglio su tutto: sguardi e ambiente, paesaggio e sensazioni. Fu Frank Gehry a progettarlo e a volerlo in quella parte settentrionale della città dopo aver osservato il panorama dal monte Artxanda. È lì dal 1997 e da allora qualcosa è cambiato. Per la città, per la gente di Bilbao e non solo.

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«Il progetto del Museo è basato sul porto che era in passato Bilbao e la città che è oggi», ha spiegato l’archistar nordamericano, oggi 93enne. Il Guggenheim è l’elemento centrale dell’incredibile processo di trasformazione di cui è stata protagonista la città basca alla fine del secolo scorso in risposta alla crisi industriale ed economica che stava attraversando. Nel 1988 era una città in crisi, ingombra dei resti del porto fluviale, inquinata e degradata. C’è un articolo di giornale a cui si fa sempre riferimento che titolava: “O ci si dà una mossa, o si muore”. La mossa c’è stata eccome. Alcune reminiscenze del cosiddetto periodo di acciaio sono racchiuse in questo tempio dell’arte contemporanea che oggi – 25 anni dopo - è in perfetta sintonia con il nuovo tracciato urbano di Bilbao e con il verde Paseo de Abandoibarra come sua porta d’accesso. Il museo abbraccia il ponte dal basso e nel suo insieme è una scultura su grande scala che, a seconda del punto di osservazione e immaginazione dell’osservatore, può assomigliare a un fiore, a una nave o a un pesce senza pinne, mantenendo un dialogo con il fiume che scorre accanto. Offre sempre qualcosa di nuovo e di inaspettato e il suo colore cambia a seconda delle luci del giorno e della notte, grazie a lamine in metallo che alludono al passato industriale e portuale della zona. Durante questi 25 anni, il museo ha arricchito significativamente Bilbao con il suo apporto di valore estetico e patrimoniale e l’ha potenziata con un formidabile dinamismo culturale ed artistico, facilitando l’accessibilità e la divulgazione dell’arte. «Ci sentiamo artefici della radicale innovazione che negli ultimi decenni ha avuto luogo nella Biscaglia nell’ambito socioculturale, in particolare per quanto riguarda la creazione e la diffusione delle conoscenze, il fomento del talento, l’integrazione e il riconoscimento di tutte le persone, così come la valorizzazione dello sforzo del lavoro di squadra», ci hanno spiegato all’unisono, durante la visita, il direttore generale Juan Ignacio Vidarte e Xabier Sagredo, Presidente di BBK che dà il patrocinio alla mostra commemorativa “Sezioni/Intersezioni”. Un vero e proprio “effetto Guggenheim” su Bilbao che ha portato a tante e ad altre costruzioni: dal nuovo terminal aeroportuale realizzato nel 2000 da Santiago Calatrava al gigantesco Puppy di Jeff Koons all’esterno del museo, che con i suoi quasi 13 metri di altezza riempiti da piante e fiori, ha avuto la meglio sui container arrugginiti che soffocavano il quartiere Indautxu. E la nuova piscina di Philippe Starck, il nuovo stadio San Mamés di César Azcárate e il futuro quartiere nella penisola di Zorrozaurre che ha lasciato nei suoi progetti Zaha Hadid, area industriale di 600mila metri quadrati a est della città il cui masterplan ne prevede la trasformazione in un quartiere urbano con 15mila residenze, uffici e laboratori per 6mila persone. Le stesse abitazioni saranno costruite a 4,7 metri sul livello dell’acqua per prevenire le alluvioni, un modello esemplare che piace perché persegue la sostenibilità offrendo una qualità della vita (secondo una classifica di Ocu, Organisation of Consumers and Users) superiore a quella di Madrid e Barcellona. Qui ogni cosa parla di riconversione ecologica e di rigenerazione urbana e se si è arrivati a ciò è per la forte volontà politica e per l’orgoglio dei cittadini. Da un lato la creazione di Bilbao Ria 2000 - società pubblica finanziata al 50 per cento dal governo centrale e per il resto dalle autorità basche - dall’altro quella di Bilbao Metropoli 30 – associazione di università, organizzazioni, enti pubblici, banche e fondazioni. Il Guggenheim – poco amato inizialmente dagli artisti, contenitore che attrae e disorienta più delle opere stesse - ha fatto il suo. Il progetto ha convinto negli anni tanti architetti, tra cui Norman Foster. È stato lui - il “creatore” dei londinesi St. Mary Axe (The Gherkin) e Millenium Bridge, del Reichstag a Berlino e di molti altri lavori - ad aprire le porte al Guggenheim e stravolgere Bilbao, progettando nel 1995 la scenografica metropolitana cittadina. Lo incontrammo ad aprile, all’inaugurazione della mostra “Motion: autos art architecture”; lo abbiamo ritrovato per questo compleanno speciale, festeggiato con una mostra che espone per la prima volta la collezione intera del Guggenheim. I curatori, Lekha Hileman Waitoller, Manuel Cirauqui, Geaninne Gutiérrez - Guimarães, Lucia Agirre e Maite Borjabad, l’hanno concepita come un trittico espositivo nei tre piani dell’edificio, dedicati ad accogliere opere iconiche. L’enorme labirinto in ferro di Richard Serra (“The Matter of time”) è in pole position, così come le grandi tele di Rothko e Basquiat, le sculture di Louise Bourgeois, Anish Kapoor e Chillida, l’ipnotico paesaggio marino di Gerhard Richter e “Installation for Bilbao” - le nove colonne a luci Led di Jenny Holzer su cui vengono proiettate frasi che sembrano raggiungere il cielo - poco distante da “Sonnenschiff”, la scultura con cui Anselm Kiefer ha raffigurato i devastanti effetti dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale sulla campagna tedesca. C’è “L’albero dei desideri per Bilbao” di Yoko Ono, “La grande Antropometria blu” di Klein, “L’uomo di Napoli” di Basquiat, l’ipnotico disegno di LeWitt, poco distante dalla stanza con la serigrafia della Monroe di Warhol, dal mondo colorato di Gilbert&George e dai Tulipani di Jeff Koons. Sarà un piacere entrare nella White Bubble di Ernesto Neto o nella scenografica Stanza degli specchi di Yayoi Kusama, “infiniti” come le possibilità di cambiamento e di miglioramento che ha offerto e continuerà a offrire. Perché, ripete Gehry, «l’acciaio non somiglia al cielo di Bilbao».