Grande editoria
Ernesto Ferrero: «La narrativa italiana oggi è omologata. La qualità della scrittura non interessa più a nessuno»
«Il personaggio autore è diventato più importante del testo. Ma tutto questo, nel suo piccolo, fa parte della crisi di civiltà che stiamo vivendo». Parla Ernesto Ferrero, in uscita con un libro di ritratti sui grandi della nostra letteratura: da Umberto Eco a Pasolini, da Elsa Morante a Natalia Ginzburg
Ernesto Ferrero è all’isola d’Elba e io a Venezia. Ci guardiamo via Skype, alle sue spalle due stampe ottocentesche, con vascelli in preda a onde gigantesche. È un giorno di libeccio e Ferrero sorride. L’occasione del nostro incontro è la pubblicazione del suo ultimo libro, “Album di famiglia” (Einaudi), ritratti di grandi scrittori e scrittrici, grandi editori, grandi consulenti visti da vicino. Una grandezza che avrebbe potuto schiacciare chi ha scritto e allontanare chi legge, invece no, si passeggia ammirati e divertiti nella galleria. La malinconia del tempo passato sta insieme alla vividezza del ricordo presente. C’è qualcosa di agrodolce e si sta bene.
L’esergo che ha scelto è una domanda di Claudio Magris che le giro subito. «Perché è più difficile narrare l’amicizia che l’amore».
«L’amore è ossessivo e possessivo, l’amicizia oblativa. Difficile fare racconto con il bene. Tutto sommato l’amicizia è più complessa, più matura. Sull’amore si basa l’80 per cento della letteratura. Mi piacerebbe leggere un bel saggio sulle amicizie letterarie».
Questo libro è una ricognizione di amicizie letterarie.
«Ho potuto raccontarle perché mi sono sempre trovato benissimo nella parte del testimone secondario. È un po’ l’attitudine di Calvino che, come il Barone, appollaiato su un ramo, si era scelto un posto sopraelevato e lievemente appartato per vedere meglio, per essere distaccato e insieme partecipe del proprio tempo. Ho sempre saputo benissimo quali erano i miei mezzi e i miei limiti. Non ho mai avuto inclinazioni napoleoniche».
Però gli ha dedicato tre libri, a partire da “N.”, Premio Strega 2000.
«Sono affascinato da quello che è lontanissimo da me. Mi sono occupato di personaggi estremi, Napoleone, Salgari, San Francesco, cercando di capire come funzionavano. Tutti a loro modo dei folli, degli invasati, dei personaggi eccessivi, ma è proprio nell’eccesso che si può sondare il mistero dell’uomo».
Anche le persone che ha ritratto.
«Ho avuto l’enorme fortuna di frequentare alcuni dei grandi protagonisti del Novecento. Da Einaudi a Calasso, da Calvino e Primo Levi a Eco, Pasolini, Natalia Ginzburg e la Morante erano anche dei personaggi romanzeschi già bell’e pronti. Intriganti, fascinosi quanto più erano originali, imprevedibili, magari sconcertanti».
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Come Livio Garzanti?
«Era tormentato da un’infelicità cosmica, un filosofo che, costretto a fare l’editore per dovere famigliare, come editore si è rivelato geniale. Nell’anno e mezzo che ho lavorato per lui, mi raccontava spesso lo stesso sogno: l’incendio della casa editrice. Se trovo qualcuno che gli dà fuoco, diceva, gli do dieci milioni. Strano modo di motivare i collaboratori, e sì che ne ha avuti di bravissimi».
Nel ritratto di Carlo Fruttero lei cita una pagina delle sue memorie in cui al Premio Formenton si ritrova davanti la migliore intellettualità europea, un po’ ingessata nelle istituzioni, fasciata dall’ideale doppiopetto degli uomini di potere, e decide che quello non sarebbe stato il suo destino. Lei come si è trovato con “l’autorevole doppiopetto”? Penso all’Einaudi o al Salone del Libro di Torino.
«Non credo di avere mai indossato il doppiopetto. Alla Einaudi eravamo tutti dei monaci trappisti che esibivano con orgoglio il loro saio. Credo di aver funzionato meglio nelle situazioni difficili, nelle emergenze, in contesti da guerriglia in montagna».
Guerriglia in montagna?
«Mi riferisco al periodo del commissariamento Einaudi, negli anni Ottanta. Salvare la casa editrice è stata veramente dura. Bisognava tenere gli autori, i cui diritti erano stati bloccati per legge e tendevano ad andarsene. Con Agnese Incisa abbiamo inventato un escamotage per reintegrarli nei loro crediti. Dieci anni dopo altre grandi difficoltà con il Salone del libro, che sembrava praticamente estinto. È stato un altro salvataggio miracoloso, condotto con Rolando Picchioni. Si vede che il clima da catastrofe imminente mi carica a palla».
Perché ha scritto che la valutazione dei manoscritti è una pratica oncologica?
«Il dover pronunciare diagnosi infauste è penoso, ogni volta. È terribile perché tutti siamo passati nella speranza, nella paura, nell’attesa del giudizio. È logorante. Leggere manoscritti è un lavoro usurante, dovrebbe essere riconosciuto come tale».
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Quanti manoscritti ha letto nella vita?
«Centinaia, forse migliaia. Adesso per fortuna molto meno, ma c’è sempre qualcuno che ha bisogno di una valutazione. A titolo gratuito, naturalmente».
Come se la passa la narrativa italiana, oggi?
«Mi sembra un po’ omologata, ridotta alla lingua basica delle sceneggiature, sul modello inglese, consumata dall’ansia del successo, pronta a salire sul carro vincente all’intrattenimento, visto il successo del giallo e del noir. Sembra che la qualità della scrittura non interessi più a nessuno, e anche la critica militante poco se ne occupa. Quello che si racconta è più importante del come lo si racconta. Il personaggio autore è diventato più importante del testo. Ma tutto questo, nel suo piccolo, fa parte della crisi di civiltà che stiamo vivendo».
Lei scrive che quando Leone Ginzburg annuncia a Giulio Einaudi il suo matrimonio con Natalia, spiega che la sposa perché scrive bei racconti. Perché?
«Ci colgo un sorriso ironico nei confronti di quel curioso dell’editore. E fa parte dell’understatement piemontese che l’ebreo russo aveva introiettato».
Poi, morto Leone, Natalia è stata subito assunta ed è diventata una brava redattrice.
«Sì, scrupolosa, tenace, instancabile, ma anche battagliera, intransigente, dura all’occorrenza. Impossibile farle cambiare idea. Una roccia».
Ha definito Pasolini uno sciamano.
«Come Elsa Morante, aveva una sorta di intuitività preverbale, da primitivo, che poi veniva tradotta in parole attraverso un formidabile armamento letterario che aveva sempre qualcosa di magico. Aveva letto e memorizzato tutto, e questo gli consentiva una lampeggiante varietà di collegamenti, un po’ come accade anche a Claudio Magris. E poi sapeva fiutare, captare tutto quello che ad altri sfuggiva. Restava unico e irraggiungibile».
Nel libro scorre una sorta di postura einaudiana che da una parte somiglia alla sobrietà, dall’altra, quando parla di Giulio Einaudi, scrive che ogni giorno voleva ci fosse una sorpresa, una scoperta, un incanto.
«Era un suo tratto personale, molto apprezzabile tra l’altro perché trasferiva ai suoi questa curiosità, il fatto di essere sempre a caccia di qualche cosa. In casa editrice giravano pittori, designer, attori… La compagnia dei Giovani, la celebre De Lullo-Falck-Guarnieri-Valli, o Luigi Vannucchi, che a teatro aveva interpretato Pavese. Ogni giornata per Einaudi doveva essere un’occasione di divertimento. Poteva anche essere la scoperta di una trattoria dove cucinavano una frittata che si faceva solo lì. Ci sentivamo tutti coinvolti in questo gioco, e come è noto il gioco è una cosa serissima, crea una modalità di ricerca, di sperimentazione. Non ti potevi addormentare. Diceva sempre muovetevi, andate, vi pago io il viaggio».
E dove andavate?
«Di soldi ne giravano pochissimi. Tuttavia, la caccia al talento era una delle attività principali. Un’altra cosa oggi impensabile è che non c’erano conflitti generazionali. I giovani non venivano precarizzati e c’era anche un grande rispetto per i vecchi sapienti, per l’armata dei venerabili, da Contini in giù, nessuno avrebbe potuto pensare che rappresentavano il vecchio da abbattere perché superato dalle provocazioni delle avanguardie. Certo gli innamoramenti continui di Einaudi facevano immalinconire le vecchie concubine. Soffrivano un po’».