Esce “Tracce di ruote” (Fandango), la raccolta dei suoi scritti pubblicati inizialmente su un blog. La testimonianza di una persona bloccata su una sedia a rotelle dopo un incidente, nel racconto di una scrittrice

“Tracce di ruote” (Fandango) è la raccolta degli scritti sparsi, pubblicati inizialmente su un blog, del musicista e scrittore Lorenzo Amurri, morto cinque anni fa. Aveva 45 anni e li avrà per sempre. Da adolescente, forse a inizio degli anni Novanta, avevo letto (credo) in “Pellegrina e straniera” (Einaudi, trad. E. Giovannelli) di Marguerite Yourcenar, un saggio su Roger Callois. Non sapevo chi fosse Callois ma conoscevo il meccanismo per l’elezione all’Academie Française sui cui scranni siedono intellettuali, scrittori, storici, filosofi (utilizzo il maschile per una questione statistica giacché prima di Yourcenar donne non ce n’erano, era tipo il Reform Club di Phileas Fogg) chiamati immortali. I seggi infatti sono quaranta, sempre e solo quaranta. Quando qualcuno degli immortali muore (!!!), viene sostituito e celebrato da un ritratto scritto e letto dall’immortale successivo. A Yourcenar nel 1980 era toccato il seggio di Callois.

C’entrerebbe poco questa digressione con Lorenzo Amurri se non fosse che “L’uomo che amava le pietre”, questo il titolo dello scritto, comincia con, vado a memoria, «Non conoscevo Roger Callois, ho pranzato con lui forse un paio di volte, ma ho fatto di più ho letto i suoi libri». Incipit che, da adolescente, mi aveva colpita. La natura di quel colpo mi si è rivelata, tuttavia, nel suo senso profondo, quando è morto Lorenzo Amurri, che è arrivato a me prima in forma bidimensionale attraverso il suo romanzo “Apnea” (Fandango, 2013), e il suo successivo “Perché non lo portate a Lourdes?” (Fandango, 2014) e poi in forma tridimensionale quando mi è capitato di incontrarlo grazie a scrittori amici comuni come Mario Desiati, allora suo editore, o Melissa Panarello. Con Lorenzo Amurri, detto Lollo, grazie a Marcello Fois, ho passato anche tre giorni molto divertenti al Festival di Gavoi. Non conoscevo Lorenzo Amurri se non per qualche sporadico ma indimenticabile incontro, però ho fatto di più, ho letto i suoi libri.


Anche questo libro, “Tracce di ruote”, esce adesso, quando Lorenzo non c’è più, e con lui è finita la testimonianza civile di una persona che ha vissuto gli ultimi anni della propria vita, in seguito a un incidente, bloccato su una sedia a rotelle e in balia di un letto con quattro motori per consentire tutti i movimenti. Le storie del letto, coprotagonista del libro, come ogni oggetto diventa coprotagonista quando la tua vita dipende in qualche modo – come ogni vita, ma in questa è più evidente – dagli oggetti, le storie del letto dicevo, sono esilaranti. Specialmente quando si rompe il telecomando. Sembra impossibile essere civili e comici nel nostro paese di intellettuali tragici, però d’altronde civili e comici sono “I mostri” di Dino Risi, civile e comico è Paolo Villaggio, civili e comici sono stati e spero saranno sempre i programmi scritti e condotti da Serena Dandini, civile e comico, con sanzione morale, addirittura escatologica, per gli intellettuali tragici è “Il nome della rosa” di Umberto Eco (Bompiani). Lorenzo Amurri era civile e comico. Che poi, sintetizzando e forse semplificando, significa accettare che la vita non è riducibile a una norma, così come – e lo ha chiarito per tutti Stefano Rodotà ne “Il diritto di avere diritti” (Laterza) - ciascun essere umano non è riducibile alla somma dei propri dati biologici, sanitari, o amministrativi – la vita non è una norma, la vita è come è. E, in fondo, siamo tutte persone sane che hanno una malattia, manifesta o no, invalidante o no, a credere a Natalia Ginzburg che, in “Caro Michele” ha scritto “Malattie immaginarie” ma comunque dolorose. Io ci credo, e mi pare anche Lorenzo Amurri. Così mi è sembrato parlandoci, così a sentire i suoi amici (accolli, come direbbe Zerocalcare), che per lui non esistesse una gerarchia del dolore, nonostante esista e nonostante Lorenzo ne occupasse una posizione apicale. Se stai male non importa perché, se stai male e non puoi essere guarito, forse allora puoi essere curato, e se non puoi essere curato, forse allora puoi essere consolato. Lorenzo Amurri consolava gli amici in crisi d’amore o crisi e basta, faceva ridere, era attento, simpatico, preciso, era aggraziato anche quando smadonnava, quando l’ho conosciuto pareva già un personaggio del El Greco, ma seduto, lungo e dinoccolato, e questi suoi scritti sparsi sono resoconti amarissimi dei tanti modi in cui una civiltà, la nostra, e una Repubblica, la nostra, abdicano alla varietà e alla possibilità dei cittadini e delle cittadine concentrandosi sulla definizione e sul sostegno di una norma, nella quale, in fondo non rientra nessuno.

Del perché Lorenzo Amurri abbia reagito così al suo incidente non so dire, ma so immaginare, e, leggendo la bella introduzione di Niccolò Fabi al volume, mi conforto nella mia ipotesi. Fabi racconta di un giorno in cui, verso mezzogiorno, suona a casa di un amico e ad aprirgli arriva Lorenzo Amurri. Completamente nudo. Niccolò Fabi scrive della confidenza col corpo di Amurri, quella stessa che prima gli ha consentito di aprire la porta nudo a uno sconosciuto, e poi di andare in mezzo al mondo, improvvisamente più sconosciuto, seduto su una sedia a rotelle. Dunque, la confidenza. Poi di certo la curiosità e il senso dell’avventura guadagnate da seduto insieme a un altro punto di vista e un’altra velocità. Poi la coscienza, intuitiva, che siamo ciò che ci manca, almeno quanto siamo ciò che abbiamo. E poi la grazia, ancora, di sapere che ridere è l’unico agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, ridere è come capire che è come perdonare.


Come tutti i diari dei grandi scrittori, questo diario ormai cartaceo di Lorenzo Amurri è pieno di altri esseri umani, oltre che di oggetti, e di insetti – si potrebbe tentare una versione analogica della narrativa italiana, dal Novecento a oggi che abbia come filo rosso, anzi nero, gli insetti – è pieno di resto, di altro. Ecco, forse il comico nasce quando guardando il sé si capisce che tutti prima o poi siamo fuoriposto, chi più chi meno – ma poi chi lo decide? – e si assume di non sentircisi, di non esserlo, o che non importa esserlo o sentircisi, e lì si ride perché ci si muove, e muovendosi, si cade. Forse la cosa più triste di Virginia Woolf nei diari – non sono pagine tristi, o lo sono volta per volta, sono pagine comiche, nonostante la versione suffragettistica che è passata nelle nostrane lettere, nemmeno a lei è stato consentito qui da noi essere civile e comica, soprattutto comica – è quella in morte di Katherine Mansfield, lei ha smesso di scrivere e io continuo. Una cosa così. Ecco, non c’è risposta a questo implicito perché se non continuando a scrivere, se non continuando a raccontare di Lorenzo Amurri che con la sua sedia a rotelle è arrivato fino a qui.