Una ragazza viene accolta per tre mesi nella sgangherata comunità che gestisce il leggendario negozio parigino. Dorme per terra, guadagna poco, spende meno. Ma l’esperienza le cambia la vita

Librerie. Ne esistono di tutti i tipi, ma di leggendarie ce ne sono pochissime al mondo. Mai avrei potuto immaginare di vivere in una di queste e che così sarei diventata scrittrice. Un weekend si è trasformato in tre mesi. Poi, in una vita.

Siamo nel 2011. Mi sono appena laureata, ma non so ancora cosa fare della mia vita. Amo il teatro, mi piace la filosofia, forse la comunicazione, non riesco a scegliere su cosa puntare. Ho troppa paura di sbagliare. Un amico mi parla della Shakespeare and Company, una libreria di Parigi che si trova lungo la Senna, quasi davanti a Notre-Dame, in concomitanza del chilometro zero, dove iniziano tutte le strade di Francia. Con un pizzico di fortuna, mi dice, ci si può alloggiare. Non si può prenotare, ci si presenta là ed è Sylvia Whitman, la figlia del proprietario George Whitman, a decidere se si può restare. Un weekend di primavera trovo il coraggio di tentare la sorte. Ancora non so che sarà il mio chilometro zero, quello da cui sarebbe iniziata davvero la mia strada.

In rue de la Bûcherie 37, la libreria scintilla con la sua insegna gialla ed è già affollata. Sylvia è una giovane donna bionda, piena di fascino. Cerco di trovare cose interessanti da dire, ma a lei basta un colloquio di qualche minuto: posso restare. Le regole sono semplici: si lavora in libreria due ore al giorno, oltre ad aprire e chiudere il negozio ogni mattina e sera, e si legge un libro al giorno. Un libro al giorno? Oscillo tra il fascino e la soggezione.

Gli ospiti della libreria sono stati ribattezzati da George Whitman “tumbleweed”, come le sfere di arbusti che rotolano nelle praterie sospinte dal vento. Sylvia mi informa che al momento sono in cinque. Li conosco tutti la prima sera, alla chiusura, quando rientrano dai loro giri per Parigi. Giacca di tweed, scarponcini slacciati, borse di tela da cui può sbucare di tutto: una scarpa, pezzi di baguette, ma soprattutto volumi di seconda mano e taccuini. Anche s e non si direbbe, alcuni studiano in prestigiose università, Oxford, Cambridge, Harvard. Parlano di letteratura come se fosse una cosa viva. Sono una piccola grande comunità. Vorrei già farne parte anch’io, essere spontanea e leggera come loro. Invece mi sento impacciata, troppo composta. Completamente persa. Provo a sorridere per non darlo a vedere.

Nelle stanze al piano terra sono stipati i libri in vendita, mentre al primo piano c’è la biblioteca: migliaia di volumi che appartengono a George e dai quali ci è permesso attingere liberamente. Un senso d’immenso mi pervade, da cosa comincio? I “tumbleweed” leggono principalmente i poeti della Beat Generation, che io nemmeno conosco, ma non oso ammetterlo. Su loro suggerimento scelgo “Il Tropico del Cancro” di Henry Miller, che fu un assiduo frequentatore di questo posto. Ho un giorno per leggerlo!

Per dormire, mi spiegano, stenderemo per terra sottili materassi di gommapiuma o si può approfittare dei divanetti nella stanza del pianoforte. Per farci la doccia si sale a casa di George Whitman. Lì si può usare pure il cucinotto.

L’appartamento di George è invaso da volumi e documenti. Non ha mai buttato via niente, neanche un pezzo di carta con annotato un vecchio numero di telefono. Per non parlare della corrispondenza con Lawrence Ferlinghetti, Graham Greene, Gregory Corso. E delle oltre 30mila biografie dei “tumbleweed” che hanno vissuto qui dal 1951: battere a macchina la propria biografia è un’altra delle regole della libreria, e non importa se ora esistono i computer.

L’appartamento è anche il posto dove vengono ospitati gli scrittori affermati, come se fosse una residenza artistica. Col passare dei giorni ne incontro alcuni. Rimango incantata dalla facilità con cui posso parlarci (soprattutto ascoltarli). Gli scrittori, che fino ad ora, nella mia testa, sono sempre stati separati dalla vita, rinchiusi nei libri, diventano persone reali. Vedere come guardano alla vita m’ispira. Mi fa venire voglia di conoscere il mondo e provare a raccontarlo. Anche se non so come e non penso di meritare alcuna attenzione.

George ha novantotto anni ed è malato. Ormai passa tutto il tempo a letto. La Shakespeare and Company è la sua quintessenza, l’incarnazione dei suoi ideali. Da quando ha aperto, George è diventato famoso per il suo spirito d’accoglienza: a chiunque entrasse offriva una zuppa o un bicchiere di vino, piuttosto che un letto se si era scrittori in difficoltà. «Non essere inospitale con gli stranieri, potrebbero essere angeli in borghese», ha fatto scrivere al primo piano della libreria, sul passaggio che dà alla biblioteca. È la sua filosofia, il suo testamento.
Mi ci vogliono settimane per trovare il coraggio di incontrarlo.

Vuole sapere da dove vengo, da quanto sono qui, cosa voglio fare nella vita, se ho scritto la mia biografia per l’archivio, così che lui possa leggerla. Io non so cosa scrivere nella mia biografia, non mi sento interessante come le persone che vivono qui. Posticipo, ritardo ogni giorno con una scusa diversa. Non voglio deluderlo. Eppure è proprio lui a dirmi: tutto va bene. Tu vai bene.

Dopo sei mesi, il 14 dicembre 2011, George se n’è andato. Ho presenziato al suo funerale, al Père-Lachaise. Hanno regalato a tutti uno dei suoi tre libri preferiti a scelta: io ho preso “L’Idiota”. Non ha mai letto la mia biografia, perché non l’ho mai scritta. Quello che ero l’ho capito solo dopo. Scherzo del destino, proprio grazie a lui.

George è leggenda. Gli scrittori che sono passati dalla libreria sono leggenda. E anche noi viviamo nel mito. Ogni “tumbleweed” ha una storia su questo posto, così si crea una sorta di epopea che si tramanda di generazione in generazione. I “tumbleweed” tengono vivo lo spirito del posto. Dopo qualche settimana mi sento una di loro.
Di notte la libreria è tutta nostra. A luci spente, siamo circondati dai libri. Dentro c’è silenzio, fuori i rumori di Parigi. Le luci dei lampioni rischiarano le stanze, per cui non è mai veramente buio.

È il tempo delle storie, prende vita la magia. Leggo romanzi in cui mi sembra al tempo stesso di abitare. Henry Miller diventa un amico, mentre leggo il suo libro lo vivo. Vita e letteratura si intrecciano. Capisco che per essere scrittore non bisogna avere necessariamente un’idea chiara dell’esistenza, e che raccontare una storia è l’unico modo per rispondersi.

La vita da Shakespeare and Company funziona secondo dei riti. Ci sono l’apertura e la chiusura, le presentazioni del lunedì, in cui noi “tumbleweed” aiutiamo a disporre le sedie, offrire il vino o intrattenere gli ospiti (è così che mi trovo a cena con Paul Auster e Siri Hustvedt, non ho il coraggio di spiccicare parola, ma non perdo nemmeno una delle loro).

Dopo aver aperto il negozio, la giornata è libera, ma abbiamo sempre tutti un libro in tasca, che divoriamo nei parchi, sul quai lungo la Senna, nei caffè. Mangiamo baguette con formaggio in offerta e, se va bene, una fetta di prosciutto. Ci aggiriamo per il Marais in cerca di vestiti vintage a prezzi stracciati, se ci sentiamo ricchi ordiniamo una pita in rue de Rosier. Il resto dei pasti lo consumiamo di sopra, nell’appartamento di George, cucinando alla buona cose economiche. Ho un’immagine vivida nella testa: M., la “tumbleweed” australiana, che prepara un risotto e poi lo porta in biblioteca, il pentolone poggiato a terra, noi seduti intorno a gambe incrociate. Mangiamo direttamente dalla pentola, ognuno con la propria forchetta.

Progettiamo spettacoli di teatro. Uno lo mettiamo in scena davvero. Tutto si può fare. Tutto è scoperta: i “tumbleweed” vogliono rendere la loro vita un’opera d’arte. E io sono una di loro. L’ultimo rito è chiudere il negozio. Poi, c’è la sera. Andiamo in giro per Parigi. Spesso finiamo a bere vino da un euro e trenta a bottiglia lungo la Senna con un clochard filosofo o al jazz bar Le Caveau des Oubliettes. Giorno dopo giorno, continuo a rimandare la partenza. Non riesco a tornare a casa, perché lì è casa.

Da allora sono passati dieci anni e mai come in quei tre mesi mi sono sentita così libera. Alla Shakespeare and Company ho capito cosa volevo fare della mia vita. La risposta era nell’odore di carta stampata, sulle mensole sbilenche, nelle nottate sdraiati sul pavimento a parlare di letteratura. Le storie ci univano, ciascuno regalava agli altri un pezzo di sé, e ne riceveva uno in cambio. Le storie muovevano le persone e quindi il mondo. Io ne avevo tante da raccontare. È stato improvvisamente naturale immaginarmi scrittrice.

«Ho creato questa libreria come uno scrittore creerebbe un romanzo», disse una volta George. «Ogni stanza è un capitolo. Mi piacerebbe che le persone aprissero la porta come aprono un libro capace di portarle in un fantastico mondo nella loro immaginazione».

Ho sempre custodito dentro di me il mondo magico che ho conosciuto grazie a lui, proprio come fosse un romanzo letto in segreto. La Shakespeare and Company mi ha dato la libertà di vivere, respirare, dormire, sognare tra i libri, e attraverso i libri. In ultimo, mi ha dato la libertà di scrivere. Senza paura di sbagliare. A questa libertà ho dedicato il mio romanzo (“Le piccole libertà”, Feltrinelli, n.d.r.).

Mai come in questo momento è giusto parlare e scrivere di librerie indipendenti che resistono grazie alle persone che le frequentano e le supportano. La comunità di Shakespeare and Company ha risposto anche adesso, durante la pandemia, quando il negozio ha sofferto molto per la prolungata chiusura delle librerie in Francia, sfiorando il fallimento. Shakespeare and Company ha lanciato un appello chiedendo sostegno attraverso acquisti sul loro e-commerce e istituendo un programma che dà accesso a materiale esclusivo online, come contributi inediti di celebri autori internazionali, a fronte di una somma annuale. Il riscontro è stato così forte da salvare le sorti della libreria. Almeno per ora. Speriamo per sempre.