Dodici anni di lavoro. Quaranta rifiuti. Poi, a sorpresa, il Booker Prize: Douglas Stuart racconta come è nato il grande romanzo della working class. Grazie all’infanzia infelice accanto a un’alcolista e ai film di De Sica

Dodici anni per scrivere il primo romanzo, Douglas Stuart, le 1800 pagine della prima stesura poi ridotte a 500, e quando finalmente esce, superando più di 40 rifiuti («Ma il rifiuto fa parte dell’attività di uno scrittore»), dopo due settimane il mondo entra in lockdown. «È stata durissima, ai libri non è data una seconda possibilità, se perdi il momento non torna più. Ero distrutto. Forse la più grande delusione della mia vita».

 

Poi però, dopo mesi di silenzio in cui sembrava che la “Storia di Shuggie Bain” non avrebbe incontrato un pubblico di lettori, arrivano i premi, e tutto cambia. Incontro - virtualmente, come ormai virtuale è ogni cosa («Vedo tutto da un buchino, dal Booker prize in poi», dice) - Douglas Stuart dalla sua casa di New York, in una giornata di sole che lascia filtrare molta luce sia dalle sue che dalle mie finestre a Milano. «We are both lucky with the weather», siamo entrambi fortunati, dice, con un gran sorriso e una grande felpa grigia. È uno a suo agio col mondo, ne ha passate tante e non si barrica dietro a niente, è «un’anima gentile sopravvissuta a un luogo durissimo», come ha detto quando ha ritirato il Booker.

“Shuggie Bain” è un romanzo sorprendente, che è molte cose insieme, ciò che più di tutto mi colpisce è la ricchezza, di immagini e di lingua, che strabordano da ogni parte, come nei grandi romanzi.

«Il centro del romanzo è il rapporto d’amore tra Shuggie e sua madre Agnes, e l’amore è generativo e non si può controllare. Ma ciò che più volevo era raffigurarli fianco a fianco, perché sono due figure molto femminili che combattono per sopravvivere in un mondo patriarcale. Agnes a causa della sua bellezza, della povertà e della dignità. Shuggie per la sua omosessualità, e per il fatto di non essere inquadrato nel mondo nel quale si trova a vivere».

 

Agnes è un personaggio indimenticabile, per me il vero centro del romanzo, una donna sfuggente e carismatica che lentamente si distrugge con l’alcol. Ogni cosa nel libro è incredibilmente viva: la Glasgow stritolata da Margaret Thatcher in cui la crisi ha spezzato le gambe a cantieri navali e acciaierie, e in cui anche le miniere di Ken Loach chiudono, costringendo tutti a vivere in case popolari con miseri sussidi di Stato.

«Il mio obiettivo era quello di rappresentare quel mondo con il maggior livello di dettaglio possibile. Era l’unico modo per mostrare quello che per me è il cuore del libro: la dignità».

La luce che brilla nonostante tutto.

«Esatto. I miei riferimenti infatti sono stati il Thomas Hardy di “Tess dei d’Urberville” e di “Jude l’oscuro”, James Joyce, Charles Dickens. E poi gli scrittori scozzesi James Kelman, Agnes Owens e Allen Warner. E registi come Ken Loach, ma soprattutto Vittorio De Sica. Il cinema italiano ha una capacità unica di rappresentare la dignità della povertà, la vita ai margini, quella degli esclusi dalla Storia. Lo fa con gioia, con contentezza, addirittura con glamour. Pensa a Sofia Loren».

Certo. Questo in “Shaggie Bain” è struggente. Ma tu non racconti una storia: la mostri.

«È proprio quello che ho cercato di fare: mostrare anziché raccontare. In modo che il lettore si potesse sedere in una stanza con Agnes a vedere il mondo dal suo punto di vista. Perché la verità è che per tutta la vita, specie da giovane, io stesso ho sempre desiderato essere capito, vivevo come un alieno nel mio mondo e nella mia famiglia. Shuggie è un romanzo, ma i dettagli provengono dalla mia vita reale. Sono cresciuto nello stesso livello di povertà, vivevamo con i pochi sussidi statali, sono il figlio gay di una madre single alcolizzata, che è sempre stata così, da quando sono nato a quando è morta, avevo sedici anni. Ho usato l’amore e la perdita della persona più importante come ispirazione».

 

Come fa l’amore a essere la cosa più potente e la più impotente allo stesso tempo?

«Shuggie prova un amore incondizionato per sua madre, il suo amore è indistruttibile, anche se è dato a un adulto che affonda. Credo che solo per i bambini valga la doppia valenza dell’amore di cui parli. Shuggie continua a tornare allo stesso punto, ogni giorno, senza perdere la speranza che lei possa migliorare, anche dopo che tutti li hanno lasciati soli, il marito, gli altri due fratelli, il suo nuovo ragazzo. Amo la tenacia dei bambini e il loro essere invincibili, laddove invece gli adulti smettono di esserlo».

Oltre a questo racconti ciò che accade a una società in una disastrosa crisi economica, per certi versi simile a quello che vivremo tra poco, quando ci renderemo conto degli effetti della pandemia. È un grande romanzo della working class, in mezzo a infinite narrazioni della middle e della high class.

«Sì. E il mio scopo non era raccontare una singola famiglia, ma una comunità intera, e attraverso una comunità una società, in una sorta di romanzo corale. Perché ho voluto mostrare la forza della solidarietà, quella cosa che può accadere nel mezzo di una crisi nerissima, come sono stati gli anni ’80 e ’90 nel mondo occidentale che si deindustrializzava. Glasgow era come Detroit e Filadelfia. Volevo mostrare come i bambini facevano il massimo per aiutare le loro famiglie, e così creavano un senso di solidarietà sociale».

C’è un altro luogo per me centrale nel romanzo, ed è il corpo. Il corpo è dove accade la sofferenza: ci sono capelli strappati, gente lanciata dalle scale o tirata per strada, visi e braccia e schiene colpite. Ma il corpo è anche il luogo sul quale i personaggi infliggono sofferenza a se stessi. Cosa ne è del corpo nel 2021?

«Se è così è perché il corpo è l’unica cosa che i personaggi possiedono. La prima apparizione di Shaggie è di nudità. Poche pagine dopo lo vediamo alle prese con un rapporto sessuale con un uomo, un vicino di casa. Quando non hai molto, ti rimane il corpo. E poi, quando il corpo della madre cede, si rovina, il rapporto tra lei e Shaggie si inverte, e attraverso la mancanza del corpo si mostra quello che una madre dovrebbe essere: la protezione per il suo bambino. A quel punto la vulnerabilità diventa esposta, violenta, e scopre la conseguenza delle dipendenze, da alcol o da droga. Oggi sappiamo che dietro la dipendenza c’è un problema psicologico, negli anni ’80 non era così. E oggi, nel 2021, da vincitore del Booker sono contemporaneamente in mille posti diversi e da nessuna parte. Ho scritto di corpi e adesso vivo tutto questo solo virtualmente. Sembra uno scherzo, non è vero?»

Se non fosse un romanzo sulle classi popolari il corpo non sarebbe così presente.

«Certo, altrimenti non avrei mai scritto un romanzo come questo».

Mi è sembrata importante anche la questione dell’identità. Shaggie non inizia a farsi problemi prima che gli altri lo facciano sentire sbagliato. Come la scena in cui gioca con le bambole, che sono solo lattine di Tennent’s con delle donne stampate.

«Non credo che l’identità sia centrale nel romanzo, credo lo sia di più l’appartenenza. Se cresci povero la questione diventa legata alla mobilità. Il mondo di Shaggie e dei suoi fratelli è confinato in poche strade. Se non appartieni a quelle strade sei un outsider».

Vergogna e dignità. Sono importanti anche nella tua vita, oltre che nel romanzo?

«Importantissimi. Sono le mie due maggiori motivazioni alla scrittura. Sono cresciuto vergognandomi di mille aspetti di me. Non c’è stato giorno in cui non abbia nascosto la mia omosessualità, la mia femminilità, la mia povertà, l’alcolismo di mia madre. Scrivere il libro è stato catartico, mi ha costretto a processare la mia vergogna. Quando il libro è uscito, all’inizio nascondevo che fosse autobiografico. Poi con i premi e le interviste e i lettori non è più stato possibile. È stata una fantastica liberazione. Adesso sono orgoglioso del mio passato, della mia povertà, di mia madre, della mia omosessualità. Scriverlo è stato riguadagnare controllo sulla mia vita».

Hai mai creduto che il tuo romanzo non sarebbe mai stato pubblicato, tanto per cominciare proprio per una questione di classe sociale? Insomma, l’editoria tutto è tranne che working class…

«Mentre scrivevo ho sempre provato una sensazione di inferiorità. Chi sono io per scrivere un romanzo? A sedici anni mi avevano detto che fare lo scrittore non era per me. Allora mi sono dedicato ai tessuti. E per vent’anni, anche qui a New York, ho lavorato nella moda. Scriverlo è stato combattere contro questa inferiorità. Ma poi, quando è stato pubblicato, molto rapidamente ha incontrato lettori borghesi. Credo però che la letteratura che racconta le classi popolari giochi sempre un gioco più complicato».

A proposito, quanti editori hanno rifiutato il romanzo?

«Trentadue negli Stati Uniti e quattordici in Inghilterra. Ma i rifiuti fanno parte del lavoro. Quello che cerchiamo, credo tu sia d’accordo, è un editore che creda nel romanzo tanto quanto ci crediamo noi».

Dodici anni di lavoro…

«Dodici anni e molte stesure. Quella finale era di 1800 pagine. Ma lavoravo nella moda a New York, che significa lavorare ottanta ore a settimana. Dall’altro lato, dopo, ero io a non voler lasciar andare il libro, volevo tenere i personaggi con me».

E adesso?

«Sto correggendo un altro romanzo, la storia d’amore contrastata di due giovani uomini nella Glasgow degli anni ’90. Una sorta di Romeo e Giulietta gay, si chiama “Young Mango”, uscirà nell’aprile del 2022. Sei una delle prime persone a cui lo dico».

Anche qui la lingua è impastata di slang, di “glaswegian”, che per me è l’ingrediente che ha dato tanta ricchezza al mondo di Shaggie?

«Spero che abbia la stessa ricchezza, ma quello che ho cercato di fare è stato lasciare i personaggi liberi di parlare».

Il Booker non ha cambiato il tuo modo di scrivere?

«Sì, altro che. Infatti sono felicissimo di aver finito la prima stesura prima del premio, perché adesso la pressione è molto alta. Ma la cosa che mi spaventa ancora di più è quanto Shaggie e Agnes siano entrati nel cuore dei lettori… Posso fare io una domanda a te?»

Certo.

«Sei gay?»

No.

«Te lo chiedo perché una delle cose che di solito mi vengono chieste riguardano l’omosessualità di Shaggie. Credo che il motivo del successo del libro nel mondo risieda proprio nella descrizione di cosa voleva dire essere gay negli anni ’80. Perché credo che non fosse così soltanto a Glasgow ma in tutto il mondo».

Oggi le cose sono cambiate? Perché in Italia non sembra che lo siano molto.

«Per certi aspetti sì, per altri no. Credo che tra i più umili i problemi siano gli stessi ancora oggi. Si è trasformata in una questione di ceto sociale. Anche qui a New York, la città più liberale del mondo, continuamente ci sono ragazzini sbattuti fuori casa dai genitori perché gay».

Ti manca la Scozia? La tua immaginazione continua ad arrivare da lì…

«Ci torno due o tre volte l’anno. Essere cresciuto in un ambiente ostile è una manna per una persona creativa, alimenta l’immaginazione. C’è così tanta umanità lì, così tanta lotta per la vita, così tanto amore e violenza, e delicatezza e cura, amarezza e gioia».

E invece New York com’è?

«New York è busy».