Recitare il presente
Tra balli sulle dune e costumi ottocenteschi la guerra in Iraq è un racconto per bambini
Francis Alÿs un artista giramondo. Un cast di piccoli attori, da un villaggio vicino Mosul. È “Sandlines”, linee di sabbia che tratteggiano un viaggio nell’infanzia perduta del Paese
Nella notte dei tempi la terra era per tutti e tutti erano la terra... Nel deserto, vicino Mosul, in Iraq, esistevano solo campi lunghissimi: l’orizzonte ambrato delle montagne, le pecore e i fischi per chiamarle. Poi, nel 1916 - dopo la fine del plurisecolare dominio dell’Impero ottomano - inglesi e francesi, ossessionati dal petrolio scoperto in quei luoghi, con un accordo segreto si spartirono il Medio Oriente.
Così eccoli, in ginocchio sulla carta geografica, ciascuno col proprio gessetto: rosso imperiale per Mr. Seykes - giubba con bottoni d’oro, casco coloniale e infradito - e blu di Francia per Monsieur Picot – maglietta a righe, cappello a cilindro e le stesse vetuste ciabatte. Una volta finito, i due si guardano e scoppiano a ridere, come solo i bambini sanno fare. Perché, sì, sono ragazzini di dieci anni che - guidati da un regista capace di squadernare gabbie percettive e confini - hanno intrapreso un viaggio nel passato, incarnandolo coi loro corpi e i loro volti.
Quella di Francis Alÿs - nato ad Anversa nel 1959 e residente dal 1986 a Città del Messico, dove aveva seguito un progetto umanitario - è un’erranza d’artista, segnata dall’incessante desiderio di confrontarsi con i luoghi più aspri del pianeta, «con gli assenti della storia» e con le intersezioni tra gli esseri umani, i territori e la geopolitica.
Pure, prima di “Sandlines, The story of History” - in co-regia con Julienne Devaux - presentato all’ultima edizione dello Schermo dell’arte a Firenze e in altri festival nel mondo, questo suo vagabondare tra Afghanistan, Palestina, Cuba, non era mai giunto a un film. Le sue erano “situazioni” concettuali - come lui le chiama – folgoranti sguardi tra videoarte, fotografia, disegni, performance corali, o in prima persona.
Come quando aveva camminato con una bottiglia gocciolante una linea di vernice verde lungo i confini dello Stato di Israele dopo la guerra del ’48 (“Sometimes doing something poetic can become political and sometimes doing something political can become poetic”, 2005). Ma cinque anni di prossimità profonda con gli sguardi dei bambini e delle bambine di un villaggio vicino Mosul - sul finire dei tempi indicibilmente atroci dell’IS - gli hanno fatto sentire la necessità di una ricomposizione, di un filo narrativo che provasse a lenire la storia frantumata del Paese.
«Doveva essere un corto, propostomi dalla Fondazione Ruya per i Campi sdei Rifugiati all’inizio del 2016, quando gran parte dell’Iraq era sotto lo Stato Islamico», racconta al telefono da Città del Messico: «Quando abbiamo visto il primo girato, erano talmente tanti i frammenti impregnati dell’energia incandescente dei bambini, che abbiamo capito che solo loro potevano “disfare” la Storia e provare a capire il presente».
Cosa sapevano del passato del Paese? «L’idea di nazione in Iraq è un’invenzione coloniale in cui è arduo identificarsi. Sapevano dello Stato islamico perché nei due anni precedenti i loro insegnanti, che venivano da Mosul, non avevano potuto raggiungere la scuola e alcuni sapevano di Saddam, per le prigioni della zona. Di fatto conoscevano molto poco, e così io stesso. È stato un apprendistato reciproco».
E come si è innescata la relazione tra la piccola troupe di Alÿs e questi bambini dai nove ai dodici anni, che nelle rinfrancanti immagini del backstage si rivedono nello schermo della telecamera, si lasciano truccare, giocano, in una sorta di laboratorio teatrale a cielo aperto? «Questi bambini sono tutti pastori e il loro quotidiano è duro, avulso dal mondo: vanno a scuola all’alba, poi in montagna con il gregge per tornare all’imbrunire attenti a mantenere lo stesso numero di capi. Sono piccoli adulti: quando gli ho chiesto di interpretare Lawrence d’Arabia o Saddam, l’hanno fatto con naturalezza e generosità. La vicenda è stata scritta in primis perché fosse comprensibile per loro; tradurre in arabo è stata una riscrittura alla quale hanno potuto contribuire. Gli animali sono diventati cruciali nel film, che è a soggetto, ma radicato nel presente»
E mentre in “Sandlines”, con straniante ironia, all’altoparlante si avvicendano gli inni nazionali dei dominatori, sono i bambini a vestirne i panni (ideati da Alÿs stesso), a fischiare quando in uno spettacolo di burattini il re fantoccio degli inglesi dà loro il petrolio pattuito; ad applaudire estasiati alla rivoluzione (1948-1958): infrangono le linee, si inzaccherano nei colori, spariscono in un polverone bianco.
Davanti a questo irrompere collettivo (non nuovo per Alÿs: nel 2002 in “When Faith Moves Mountains” aveva coinvolto cinquecento baraccati di Lima nello spostare una grande duna), innanzi alle pecore che, incredibilmente, all’ultimo non varcano il bordo rosso-blu, chiediamo a che punto sia giunta la sua ricerca sui confini: tra colori portatori di libertà e colori indicatori di divisioni geopolitiche.
«In Sandlines “i confini” sono come una paurosa Land Art di guerra - cui ho assistito - compiuta dai bulldozer a seconda degli esiti del conflitto. Rispetto alle pecore, mai ci saremmo aspettati che schivassero la linea: un istante di magia. Ma il film è tutto sui confini, sul tempo e fuori dal tempo. Nel deserto non c’è niente di più assurdo di una linea che divida la terra. Quanto alle nuove separazioni prodotte dalla pandemia, per la mia generazione sono una sconfitta, lottavamo perché le barriere sparissero. Invece in tanti Paesi ci ritroviamo con la democrazia più fragile di sempre. La pandemia in Iraq per i bambini è l’ultimo atto di questi processi distruttivi. Io ho trascorso la quarantena in Messico dove non c’è protezione sanitaria statale e non sono ancora potuto tornare a mostrare il film ai piccoli protagonisti».
Intanto in “Sandlines” due bambine - come deus ex machina - osservano la scena. Più avanti, con la presa del potere del dittatore, la finzione si infrange e, all’arrivo di “Captain America”, «una rovina chiamata pace», Alÿs in voce dà il ciak a un mini Saddam con maschera antigas. Nel 2003 carcasse di carrarmati. Allora «sulla terra in migliaia di pezzi giunge il terrore» (era il 2014). Un’ombra enorme insegue una bambina. Finché «anche il terrore si terrorizza e ha fine».
Adesso sono queste ragazzine, con le gonne roteanti, a spargere dietro di loro una scia di terra, a danzare nel sole: «Durante le riprese nel 2018 avevamo la narratrice in voce over ma le bambine erano solo comparse. Poi, quando siamo tornati a mostrare il primo montaggio, le femministe del luogo si sono riunite a vederlo. Le donne in Iraq sono state così violate e ferite dalle ultime guerre e dall’IS, che avevano bisogno di fidarsi. Allora è successa una cosa meravigliosa: tutte le bambine hanno voluto partecipare e sono divenute sempre più sicure e critiche verso i coetanei maschi. Il loro avvento ci ha consentito di infrangere una tragica narrazione ciclica: perché una rinascita può avvenire solo se saranno loro, le ragazze, la guida». Un auspicio che il finale fa proprio: «Trasforma le nostre sofferenze in storie», dicono tutte insieme.