Esercito statunitense e Servizi speravano di transitare nel nuovo Iraq una volta sconfitto Saddam. Ma l’epurazione decisa dagli Usa alimentò la resistenza e spianò la strada alla nascita dello Stato Islamico

«Li ho trovati. Ci aspettano domani». Come sempre laconico, il messaggio di Andraus, lo stringer cristiano caldeo che ci guidava nei meandri della guerra, arrivò puntuale. L’invasione dell’Iraq era iniziata il 20 marzo del 2003 e la stessa Bagdad era stata conquistata neanche un mese dopo, il 15 aprile. Bagdad era ridotta a uno scheletro spolpato dalla violenza.

 

La popolazione era smarrita. Lunghe file di uomini e donne attendevano di ricevere i 20 dollari che la nuova Autorità della coalizione a guida Usa distribuiva come sussidio per campare. Il vecchio impero, la terra del Tigri e dell’Eufrate, la culla dell’umanità, era sparito.

 

Mi chiedevo dove fosse finito l’esercito di Saddam Hussein. Il capo era scomparso improvvisamente nella notte, dopo aver salutato il suo Stato Maggiore dando appuntamento per il giorno dopo. Eppure, i suoi 400 mila soldati, assieme ai 60 mila centurioni delle Guardie repubblicane, oltre ai 40 mila paramilitari dei Feddayn e i 650 mila riservisti, erano considerati un’armata invincibile. Dove erano finiti? Gli ufficiali si erano tolti la divisa ed erano tornati nei loro villaggi. A nord di Bagdad, nella zona sunnita dell’Iraq, tra Tikrit, paese di nascita di Saddam, e Mosul, la capitale che segnava il cuore della minoranza etnica del Paese da sempre al potere.

 

È stato in uno di quei villaggi che ho visto il futuro dell’Iraq. Incontrato gli uomini che nel giro di 4 mesi avrebbero iniziato la resistenza e che tre anni dopo, nel 2006, a maggioranza, avrebbero formato il vertice dello Stato islamico dell’Iraq, diventato poi Isis (o Daesh, in arabo) a sua volta nato dalle ceneri di Al Qaeda tra i due fiumi dello «sceicco dei macellai», come era soprannominato Abu Mussa al-Zarqawi. Rievocare quell’incontro, a distanza di 20 anni, serve a capire l’errore più grave commesso dagli Stati Uniti. L’invasione in Iraq non è stata solo decisa sulla base di una bugia, sostenuta da un documento risultato poi falso, dalle rivelazioni, anche queste false, di un leader sciita, Ahmed Abdel Habi Chalabi, e con il sostegno giuridico del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Le armi di distruzione di massa non sono mai state trovate perché non esistevano. Al Qaeda non è mai stata accolta dal rais. L’Iraq era l’ultimo posto dove si sarebbe rifugiato Osama Bin Laden. Ma gli Usa volevano quella guerra.

 

Una volta sconfitto Saddam Hussein, il governatore provvisorio Paul Bremer commise un secondo tragico sbaglio. Ossessionato, come l’intera amministrazione di George W. Bush, dai seguaci del dittatore varò l’ordinanza che metteva al bando chiunque avesse aderito al partito Baath. Nei fatti decine di migliaia di alti ufficiali delle forze armate, di funzionari e agenti di polizia, arruolati a forza nel partito unico al potere, così come i dipendenti dell’articolata rete dei servizi segreti, rimasero senza lavoro né stipendio. Una ricchezza di esperienza e di conoscenza buttata al vento. Anzi: offerta al nemico su un vassoio d’argento. Erano i padroni di casa, finirono nelle braccia della resistenza. Avevano fatto la guerra per tutta la vita. Hanno inflitto 4.466 morti alle forze Usa e 326 a quelle degli altri 49 Paesi della Coalizione, 33 agli italiani, 25 dei quali uccisi a Nasiriya che si aggiungono agli oltre 250 mila civili iracheni uccisi.

 

L’accoglienza è studiata. L’ospitalità irachena restava salda, anche davanti a un giornalista che rappresentava la coalizione nemica. Per l’occasione è stato ucciso e cucinato un montone. Il padrone di casa ha invitato i capi dei villaggi vicini e gli imam più ascoltati. Sono tutti alti gradi militari: maggiori, colonnelli, molti generali. Senza divisa, indossano i vestiti tradizionali. Adesso sono seduti con noi sui divani del grande salone. Parlano a turno. Seduto al posto di onore sono servito dal capo famiglia. Resta in piedi, senza mangiare. Si assicura che abbia i pezzi migliori di carne e porzioni abbondanti di riso profumato con uvetta e datteri. Le donne restano in cucina, protette da sguardi inopportuni. Ci raccontano dell’ultima notte prima della disfatta, della fuga di Saddam. Non c’è acredine. Solo amarezza. Guardano al futuro. Mi affidano un messaggio da mandare alla Coalizione. Vogliono sapere se faranno parte del nuovo Iraq. «Siamo militari e chiediamo di continuare ad esserlo», dicono. «Il signor Bremer ci deve una risposta. Se non la otteniamo entro sei mesi, inizieremo la resistenza».

 

La risposta tardò e quando arrivò fu la stessa di quella emessa il 16 maggio del 2003: la proscrizione di chiunque avesse aderito al Baath. George W. Bush si affrettò a chiudere la partita, annunciò il primo giugno la fine della guerra. Ma fu l’inizio di quella civile che durò fino a tutto il 2006. Che aprì le porte dell’inferno di al Zarqawi, con i suoi massacri tra gli sciiti, la sequenza infinita di autobombe e attentatori suicidi, la reazione furibonda delle milizie di Muqtada al Sadr e del suo esercito del Mahdi. Nel quattro anni in cui tornai più volte a Bagdad vidi apparire le prime bandiere nere del futuro Isis, sentii lanciare gli slogan su Bin Laden che inneggiavano ad Al Qaeda. Incontrai altri emissari della resistenza contagiati dallo “sceicco dei macellai”, in pieno giorno, nella hall dell’hotel Palestine. Avevano già deciso. «Vedrà che bel carnevale», avvertirono prima di sparire tra la folla degli ospiti dell’albergo.

 

Pochi giorni dopo, durante l’Ashura, la festa sacra degli sciiti, le città sante di Samarra e Karbala vennero sconvolte da venti attentati suicidi. Ci furono oltre 300 morti e 1.200 feriti. Al Zarkawi aveva vinto. Tre anni dopo, una volta ucciso da un missile lanciato da un drone, il suo scettro venne raccolto da Abu Bakr al Bagdadi, il califfo dello Stato islamico, poi diventato Isis e allargato alla Siria. Al vertice, dominato dagli iracheni, ci sarebbero stati loro. Molti degli ex ufficiali di Saddam. Gli stessi che in quel villaggio, in quella casa, chiedevano di tornare ad essere i soldati di sempre.