Intervista
Michele Mari: «Il cattivo scrittore conosce cento parole, quello bravo mille»
Scienziati, scacchisti, rabbini e Golem. Nel suo ultimo libro, “Le maestose rovine di Sferopoli”, lo scrittore rende omaggio alla narrativa fantastica. E alla potenza della parola
Il nuovo libro di Michele Mari si intitola “Le maestose rovine di Sferopoli” (Einaudi) ed è una raccolta di racconti che trasferisce a chi legge un entusiasmo le cui sfumature si muovono dal comico al grottesco, dallo storico al personale, dall’invenzione immaginifica a quella linguistica. Come tutti i libri di Michele Mari anche questo è un libro di avventura. E le avventure, per Michele Mari, anche quando hanno matrice biografica - penso essenzialmente a “Leggenda privata”, ma perché non “Verderame”, “Asterusher” o “Tu sanguinosa infanzia” - non sono avventure interiori. I duchi discutono coi villici, il numero parla al funerale del padre, i rabbini si battono nella sfida dei Golem, gli inquilini parlano di presenze, forse fantasmi forse fole, con padrone di casa di antica e decaduta aristocrazia - o così immagino, i florilegi sono veri ma non sempre hanno natura veritiera le citazioni o le attribuzioni, per non parlare di ciò che accade sulle strade provinciali. Dunque due sono le possibilità, o almeno quelle che io vedo, e non è detto siano in contrapposizione, forse, anzi, sono in intersezione. O l’io di Mari coincide col mondo intero - mondo presente, passato, futuro, inventato e frainteso - o la sua interiorità è linguistica, risiede, si dipana e si nasconde nelle parole.
Ho sempre pensato che Michele Mari fosse il più gaddiano tra gli scrittori e le scrittrici italiane, penso, tuttavia, possa anche dirsi il contrario – dal punto di vista temporale – e cioè che Gadda sia il più mariano tra gli scrittori e le scrittrici suoi coevi. Dove mariano ha da intendersi non solo come “alla maniera di Mari Michele” ma pure come immacolato. Immacolata è la lingua che nasce da sé stessa; pura rispetto alle dimenticanze indotte dall’utilizzo statistico dei lemmi, dalle loro deformazioni, e dimenticanze; intatta perché piena di memoria e perché piena di futuro.
Chiedo al Michele Mari lettore qual è il suo rapporto con il filone fantastico della narrativa italiana.
«Un rapporto di affetto e di dipendenza: Calvino rimarrà sempre per me quello del “Visconte”, del Cavaliere e del Barone, così come il Primo Levi cui sono più legato è quello delle “Storie naturali”; Landolfi e Buzzati hanno fondato il mio canone fin dalla prima lettura (insieme ad autori come Hoffmann, Potocki, Stevenson, Poe, Peake, Kafka, Kubin, Borges, Perutz, Gombrowicz, Ransmayr), un canone felicemente libero da moralismi, psicologismi, giornalismi, neorealismi...».
Che studente e che studioso è stato ed è Michele Mari?
«Fino alla maturità, uno studente molto lavativo, nel senso che vivevo di rendita sui miei talenti letterari trascurando tutto il resto (all’epoca, al liceo classico, si poteva); mi ha aiutato anche una notevole memoria lievemente autistica, che mi consentiva di immagazzinare per sempre tutto quello che certi professori dicevano. Ho studiato seriamente, invece, all’università, come in un’apnea durata quattro anni: peraltro anche su questo ho poi vissuto di rendita. Come studioso, avvertendo uno iato incolmabile con la creazione letteraria, credo di essermi imposto una divisa filologico-erudita che rispondeva sia alla mia maniacalità sia al rituale accademico».
Basta leggere il vocabolario per acquisire una coscienza etimologica?, E perché, assunto ciò, l’ottica non è altro che una forma della filosofia?
«Impiegare la lingua con proprietà ed eleganza è già una forma di conoscenza (sia per chi scrive o parla sia per chi legge o ascolta), ma certo non basta “leggere” il vocabolario: bisogna esserselo filtrato nel sangue con le letture e con gli studi, possibilmente classici; bisogna aver tradotto; e soprattutto bisogna aver fatto della cultura una seconda natura, paradossalmente spontanea. In ogni caso il più grande filosofo italiano resta Vico, che si inventava delle etimologie folli ma non per questo meno illuminanti e “vere”».
Sempre a proposito di coscienza etimologica che differenza c’è, se c’è, tra i nomi sul vocabolario di tutti, e i nomi del suo proprio vocabolario interiore che variano e si rincorrono da “Di Bestia in bestia” fino a qui? (ogni volta che penso al “malfrodito” di Roderick Duddle scoppio a ridere, per esempio).
«Come ho raccontato in “Leggenda privata”, nella mia famiglia si è sempre giocato molto su nomi, soprannomi e deformazioni varie, in un rapporto costantemente “plastico” con la lingua. Ne ho derivato anche la propensione all’ecolalia e alle filastrocche surreal-dementi (una forma di esorcismo dell’ansia, pare). Una volta i miei figli hanno inventariato “le canzoncine di papà”: ne hanno trovate più di 200».
Il numero di parole italiane che usa nei suoi testi è superiore a quello della maggior parte degli scrittori e delle scrittrici italiane, qual è la peculiarità delle parole, o quali sono le peculiarità delle parole, nella costruzione di un racconto?
«Dipende, la parola può essere la materia prima e dunque avere un suo pregio originario (non assoluto ma relativo: per un armadio è meglio il noce, per un aeroplanino meglio la balsa), ma può essere anche una gemma, un’incrostazione, un coagulo, una chiave; può essere precisa e scientifica oppure vaga ed ambigua, alta o bassa, propria o bachtinianamente “altrui”, eccetera. Ci sono casi in cui la parola deve diventare trasparente, quasi invisibile, ed altri in cui deve imporsi; casi in cui è al servizio della frase (e del ritmo), e casi in cui è essa stessa la sostanza del racconto, se non il racconto stesso. Landolfi, in questo, docet. Negli anni ’70 si diceva: “L’operaio conosce cento parole, il padrone mille: per questo è il padrone” (o qualcosa del genere). Ecco, io direi: “Il cattivo scrittore conosce cento parole, quello bravo mille eccetera”: dove l’incremento è dato non solo da un plurilinguismo sincronico (Gadda, Primo Levi) ma anche se non soprattutto da una familiarità diacronica (Landolfi, ancora Gadda, Bufalino, Manganelli)».
Fanno capolino, baluginano, in queste sue pagine, scienziati, scacchisti, rabbini facitori di Golem (e Golem che producono Golem proprio come Macchine di Turing che nascono da altre macchine di Turing). Perché secondo lei gli scienziati sono tornati a entrare nei romanzi? Sempre che ne siano davvero usciti.
«Non saprei rispondere, forse perché non ho mai pensato ai rabbini del racconto in termini di scienza. Il Cern, i numeri primi, le particelle elementari mi sgomentano a priori, tanta è la mia ignoranza. Lo scacchista mi pare un personaggio formidabile (il Fischer di Giacopini, ad esempio), così come l’erudito asserragliato nella sua biblioteca-manicomio, come il Minor di Simon Winchester o il sublime Kien di Canetti, l’unico personaggio moderno all’altezza di Don Chisciotte».