Una storia autobiografica. Affidata a quattordici interpreti. Che la arricchiscono con le loro esperienze. Alexe Poukine spiega come è nato "Sans frapper", il documentario che ha vinto il Festival dei Popoli
Per lei non era uno sconosciuto. "Sans frapper" di Alexe Poukine è la storia di A.L., a quel tempo diciannovenne, violentata tre volte in una settimana da un ragazzo con cui usciva. Ma sono anche tante storie, solo nel film quattordici – dodici donne, due uomini – come vasi comunicanti, come riflessi di un prisma di racconti e di sguardi, tra imbarazzo e silenzi, chiusi nelle loro case come dentro abissi interiori, mentre cocci di dolore rimosso risalgono dal buco nero della memoria. Fino a condensarsi in parole, fino a guardare in macchina.
I quattordici interpreti raccontano come fossero lei: c’è l’essersi confidata, poi durante l’atto sessuale c’è il chiedergli più volte di fermarsi e lui che non lo fa, ci sono grida che rimangono implose, c’è lo straniarsi dal corpo, la rabbia inenarrabile dentro, il calvario emotivo e fisico del dopo, la fatica immane del riconoscerlo come “stupro” nelle psicoterapie, tra sensi di colpa e vergogna, e oltre la nebbia atavica dei cliché sociali sull’argomento: dell’essersela voluta, del maschio che non può fermare il suo desiderio, dell’essere libere come gli uomini… E ancora la ferita che riaffiora nel frangente atroce della denuncia alla polizia: «Avevo consentito a un flirt, non a essere stuprata».
"Sans frapper (That Which Does Not Kill)", documentario vincitore all’ultimo Festival dei Popoli e ora in giro per l’Europa (sarà a Visions du Réeel a Nyon ad aprile), si irradia dal testo-testimonianza della scrittrice Ada Leiris. Parole per dire l’inenarrabile partorite grazie alla sponda della regista Alexe Poukine e poi incarnate da donne e uomini, senza soluzione di continuità tra la pelle di Ada e la propria. "Senza bussare" (ma sono tante le sfumature di significato del titolo), è una rigorosa partitura che inesorabilmente - con camera fissa e la voce narrante di Poukine - produce una narrazione estesa che da individuale si fa politica: è indagine documentaristica che si abbevera alla sorgente empatica del teatro, è spietato desiderio di capire, a cominciare dal sentire profondamente se stesse, «non più pazze, non più sole». Ne abbiamo parlato con Alexe Poukine.
Quali sono state le sue iniziali motivazioni per questo progetto così articolato?«Ada Leiris mi ha cercato dopo la proiezione del mio primo film: avevo trentadue anni, ero diventata da poco madre di una bambina e mi chiedevo come crescerla in una società fondamentalmente sessista. Quello che mi infastidiva di più era accorgermi che, sebbene mi considerassi femminista, avevo introiettato certi giudizi subliminali nei confronti del mio genere. Per esempio rispondevo al desiderio degli altri senza domandarmi cosa volessi. Ho sentito quindi che dovevo mettere le cose in chiaro in tutte le aree della mia vita».
Ramo centrale di "Sans frapper" è il testo di Ada Leiris. Come è stato concepito? «Quando ho incontrato Ada, mia coetanea, mi ha raccontato come al momento dello stupro (nove anni prima), non avesse “parole per dirlo”. Desiderava dunque, col mio aiuto, dar vita a una narrazione che si allontanasse dallo stereotipo spesso veicolato sulla violenza sessuale: commessa di notte, da uno sconosciuto, brutale, possibilmente armato, o squilibrato. Da parte mia, non volevo domandarle di testimoniare di fronte alla telecamera perché pensavo fosse necessario un dispositivo che la proteggesse dalle reazioni possibilmente violente o giudicanti del pubblico. Cominciando a raccontare ad altre persone la sua storia – allora il caso Weinstein non era ancora pubblico - avevo capito che sebbene molti avessero vissuto esperienze simili, era difficile rivelarle. Ma, d’altro canto, era anche difficile identificarsi con le vittime di questa tipologia di stupri».
Come si è svolto il lavoro di imbastitura del testo e dalla scrittura al film? «Per due anni Ada e io abbiamo avuto scambi verbali e via e-mail. Mi piaceva la sua capacità di visione rispetto alla sua stessa storia. Da qui ho definito dieci capitoli, ciascuno per una tappa del suo tracciato: dall’incontro con la sessualità, al confronto col suo stupratore (capitolo che non è nel film). Le ho chiesto di scrivere una pagina o due per ogni parte. A questo punto ho cominciato a cercare persone che avessero bisogno di narrare questa storia e di interpretarne uno dei capitoli come fossero stati Ada. Altro intento clou era quello del creare empatia… Per me non si trattava in nessun caso di storie individuali. Tutti gli stupri raccontati fanno parte di una storia politica, globale, di un racconto della violenza in generale e del patriarcato in particolare. Per questo ho scelto di cancellare il limite tra i momenti in cui i protagonisti del film narrano il testo e quelli in cui parlano di sé: ciò che conta è sapere che queste storie esistono e sono esistite, non importa sapere esattamente chi le ha vissute».
Come è giunta a queste dodici donne e due uomini? E come ha lavorato alla relazione con ognuno/a? «Ho fatto qualche prova prima, con una mezza dozzina di attori professionisti. Poi ho capito che volevo dare la parola a chi aveva un punto di vista più specifico sullo stupro: poliziotti, psicologi, lavoratori del sesso, linguisti, sociologi, avvocati. Tra queste persone ce ne sono alcune che conoscevo bene (tre delle mie migliori amiche), e altre appena. Ci siamo confrontati sul testo di Ada e sul loro mestiere. Prima di filmare ho posto molto poco le questioni personali e ho fatto affidamento sull’emozione con cui parlavano del testo».
Tutto è girato in interni. Sono le case degli interpreti? «Sì, eccetto che per il primo uomo, ripreso a casa mia, dato che vive lontano. Mi sembra che questi spazi dicano ugualmente qualcosa delle persone. E inoltre la maggioranza degli stupri non è legata alla strada o ai parcheggi deserti ma ai luoghi domestici. Volevo mostrare quei posti dove ci si sente protetti e dove non sempre lo si è».
Cercando di comprendere le ragioni per cui Ada torna due volte dall’uomo che l’aveva stuprata, tocchiamo uno dei nodi più delicati, quello per cui una donna riceve più attacchi esterni, lo stereotipo atavico del “se l’è cercata”… Dal film emergono possibili motivi del suo comportamento e delle persone in cui la sua storia risuona (attrazione e mancata autoprotezione, desiderio di “riparare” e cancellare…); lei cosa pensa? «In questi anni ormai lontani dalla rivoluzione sessuale, spesso si scambiano per forme di libertà gli infiniti modi per rendere oggetto una donna, anche attraverso uno spietato "disempowerment" praticato nei confronti delle bambine. Non ho conosciuto lo stupro, ma come tutte le ragazze sono cresciuta con questa minaccia e a volte l’ho evitato per un pelo. A diciannove anni la mia visione dell’amore, di me e dei miei confini era così ingenua e vaga che se come Ada mi fossi imbattuta nell’uomo sbagliato, non so cosa avrei fatto. Nonostante questo - ma è difficile parlare al suo posto - , se Ada ritorna a vedere il suo aggressore, è per un tentativo molto ingenuo di riprendere il potere su un’esperienza che allora, per lei, era irrappresentabile. Non aveva che diciannove anni e noi in Europa non siamo educati alla sessualità e all’amore, specie le ragazze. Certo ci sarebbe tanto da dire sul fatto che le donne, fin da piccole, sono del tutto recise dai loro desideri. Di solito non vi hanno accesso se non alla fine di un lungo cammino di decostruzione della loro educazione familiare, di classe ma anche sociale. Credo così che bisognerebbe spostare l’attenzione collettiva sul perché il suo aggressore abbia violato Ada. Come leo stessa dice, lei è certamente responsabile di esserci tornata, di essersi voluta difendere da sola, ma non è colpevole: colpevole è lui».
Una delle donne racconta la sua deposizione alla polizia, disturbata da un continuo viavai nella stanza. Con questo film voleva fare l’opposto e creare il posto più rispettoso e intimo – camera fissa, nessuna fretta? «Tenevo molto a non inscenare il processo di Ada. I frangenti delle riprese - malgrado le parole talvolta dure pronunciate – sono stati per lo più dolci. Con me avevo una capo-operatrice e un ingegnere del suono. Li ho scelti per le loro qualità artistiche ma anche per quelle umane. Uno dei due uomini racconta di non essersi a lungo posto la questione del desiderio della compagna, e sottolinea come socialmente costruiamo una immagine mostruosa dello stupratore, così che non corrisponda a nessuno».
Durante l’acme del MeToo uno dei nodi cruciali di riflessione emersi riguardava il consenso con annessa difficoltà di alcuni uomini a capire quale fosse la soglia per definire la violenza di genere. C’erano anche donne che quasi difendevano il diritto degli uomini a molestare… Un misto di ignoranza e malafede e la prospettiva maschile dominante per secoli. Che ne pensa? «Siamo tutti più o meno incosciamente imbevuti di idee patriarcali. Molte donne hanno fondato la loro vita su principi di sottomissione femminile (come il dovere di essere desiderabili), quindi purtroppo non mi sorprende che reclamino il diritto a farsi molestare… Trovo sia molto triste confondere la seduzione (il condividere) con la molestia (l’aggressione). Molti uomini non vedono la differenza. Pensano che insistere sia normale. Spero che un giorno le donne possano apertamente esprimere il loro desiderio, senza più dover simulare accettazione col sorriso, o nascondere quello che vogliono. Il giorno in cui il “sì” delle donne sarà più chiaro, forse anche il loro “no” lo sarà. Non lo dico per destabilizzare gli uomini. Ancora una volta penso che abbiano un lungo cammino da fare per riconoscere i loro privilegi - di cui abusano – e che alla fine li alienano da se stessi quanto alienano noi donne».
Può dire qualcosa sui titoli francese e inglese del film? «Per lungo tempo il titolo doveva essere "Tout ce qui ne tue pas", "quello che non uccide". Solo alla fine del montaggio è diventato "Sans frapper" ("senza colpire" ma anche "senza bussare", n.d.r.). È un'espressione che in francese ha più significati: gli stupri sono commessi spesso senza brutalità, senza “colpire” e in modo esteriore. In più c’è l’idea di entrare senza essere invitati. Trovavo questo titolo più sorprendente. Ma in inglese “Senza bussare” non ha lo stesso significato, quindi per la versione anglofona ho scelto di tradurre l’antico titolo in francese che citava una famosa frase di Nietzsche che viene contraddetta nel film: perché “Quello che non ti uccide” non ti rende più forte, no».