Un viaggio nella capitale afgana tra teatri occupati, tele in cemento e spazi restaurati. A cui registi, poeti e altri artisti, decisi a combattere contro ingiustizie e pregiudizi, ridanno vita

Non occorre studiare arte, per apprezzare la bellezza di un dipinto... Studentessa di psicologia, 25 anni, occhiali da sole e spolverino colorato, Fatima Zahidi passeggia con le amiche tra le sale luminose del padiglione della Regina. Siamo in uno dei luoghi più suggestivi di Kabul, nella parte alta dei giardini di Babur, fatti costruire dal fondatore della dinastia Moghul all’inizio del sedicesimo secolo. «Conosco la nostra tradizione poetica, ho studiato i poeti Rumi e Firdousi, ma non credevo che avessimo dei pittori così bravi. È incredibile!», dice entusiasta Fatima mentre le amiche scattano selfie.

Alle loro spalle, le riproduzioni dei capolavori dell’arte pittorica islamica, quella timuride del sedicesimo secolo, quella safavide del successivo. Settantadue riproduzioni di miniature raccolte dallo studioso Michael Barry nei musei e nelle collezioni private di tutto il mondo, dal Canada all’Europa, dagli Stati Uniti alla Turchia, dall’India all’Egitto e restituite in una mostra all’attenzione degli afghani. Promossa dall’American Institute of Afghanistan Studies con il comune di Kabul e l’ambasciata statunitense, l’esposizione a Bagh-e-Babur, che è stata visibile fino alla fine di giugno, rievoca un periodo glorioso: quando Herat, capitale dell’impero timuride, era la Firenze dell’arte islamica, mentre dal forte di Bala Hissar di Kabul ancora riecheggiavano le parole del futuro imperatore dell’India, Babur: «Questa cittadella è insieme montagna, mare, città e deserto. Bere vino all’interno di queste mura è una delle cose più belle che mi sia mai capitata». Una vera e propria età dell’oro.

Timur Hakimyar, direttore della Foundation for Culture and Civil Society, rimpiange un’età dell’oro diversa, più recente. Qui a Kabul conosce tutti e tutti lo conoscono. Già portavoce dell’Associazione di categoria degli artisti afghani, consulente del ministero della Cultura, Hakimyar opera da anni nell’ambito culturale, «perfino sotto i talebani ». Per lui l’età dell’oro si è aperta nel 2001 con il rovesciamento dell’Emirato islamico d’Afghanistan e si è conclusa pochi anni fa.
«Dal 2002, e per molti anni, la cultura è stata sostenuta, sovvenzionata, aiutata, apprezzata. Si producevano film, pièce teatrali, concerti, mostre di pittura e fotografia», spiega nel suo ufficio, in una villa affascinante e malridotta dei primi anni del Novecento, nel quartiere popolare di Deh Afganah. I soldi provenivano perlopiù da donatori stranieri, che progressivamente hanno tirato i remi in barca.

La “bolla culturale” si è sgonfiata gradualmente, seguendo un meccanismo già visto in altri contesti di guerra. «Con il progressivo ritiro delle truppe straniere, sono venuti a mancare anche i fondi per le attività culturali», utili a legittimare la presenza dei soldati. Oggi la situazione è difficile: «da soli fatichiamo ad andare avanti e siamo tornati all’ombra della guerra». Kabul è diventata sempre di più terreno di battaglia.Stragi e attentati hanno colpito caserme, ambasciate, ma anche piazze e manifestazioni pacifiche. Perfino i teatri.

L’11 dicembre 2014, nel Centro culturale francese del Liceo Esteqlal di Kabul si rappresentava “Hertbeat. The Silence after the Explosion”. Uno spettacolo teatrale che, ci spiegava poco prima dell’inizio la tedesca Inge Missmahl, tra i promotori dell’iniziativa, voleva «rappresentare i momenti che seguono un attentato».
Attori locali, melodia scritta dal compositore francese Yves Pignot ed eseguita dai musicisti dell’Afghan National Institute of Music, fondi del ministero degli Esteri tedesco e dell’Unione europea, pubblico di studenti universitari e pochi stranieri (tra cui chi scrive), la pièce era un simbolo del nuovo Afghanistan.

Oltre che il primo tentativo di ragionare sugli attentati suicidi attraverso l’arte. A metà della rappresentazione, un ragazzo di 14 anni si è fatto saltare in aria. Tre vittime e diversi feriti. I Talebani hanno rivendicato: «Perché occupazione militare e occupazione culturale sono la stessa cosa. Quell’attentato ha segnato la fine dell’età dell’oro», spiega Hakimyar. I protocolli per la sicurezza sempre più rigidi per gli stranieri. I fondi a singhiozzo. Le barriere di cemento sempre più alte. I contatti interrotti.
Eppure, c’è chi ha continuato a credere nel potere dell’arte. L’associazione non profit Turquoise Mountain, per esempio, ha restaurato gran parte di Murad Khani, storico quartiere residenziale e commerciale nel cuore di Kabul, adiacente al bazar cittadino.

Un lavoro paziente, lungo due coordinate. Non solo edifici da preservare e restaurare, ma anche mestieri da tramandare, saperi da trasmettere.
È il mandato dell’Istituto afghano di arte e architettura, inaugurato dieci anni fa e oggi diretto dalla ricercatrice italiana Francesca Recchia, già autrice insieme al fotografo Lorenzo Bugnoli di “The Little Book of Kabul”, preziosa ricognizione sulle pratiche artistiche della capitale. «Qui immaginiamo una linea di continuità tra il passato e il presente», spiega Recchia nel suo ufficio di Murad Khani. «L’idea è che sia impossibile preservare una tradizione senza formare artigiani competenti, che coniughino le migliori tecniche con la creatività e l’intraprendenza individuale».

Formalmente, la scuola è paragonabile a un nostro istituto professionale. Nella realtà, è un piccolo paradiso nel cuore di una città caotica e spesso violenta. Quattro i corsi proposti: gioielleria e intaglio delle pietre; calligrafia e miniatura; intaglio e lavorazione del legno; ceramica. «Ogni studente può seguire soltanto un corso, e lo fa per 3 anni». In totale, ci sono circa 100 studenti. Vengono soprattutto da Kabul, ma anche dalle province di Nuristan, Logar, Parwan, Nangarhar. Il metodo è lo stesso per tutti: «Si impara facendo», spiega Khwaja Qamaruddin Chishti, maestro di calligrafia dell’Istituto, una lunga esperienza alle spalle e una passione contagiosa. Ci tiene a dire che è fiero dei suoi studenti. «Vincono premi internazionali, vengono apprezzati. Qualcuno apre una galleria, uno studio. Qualcuno lavora con noi, terminati gli studi».

Come ustod (maestro) Zama. Lo incontriamo mentre fa lezione. Piegati sul tavolo, l’espressione concentrata, gli allievi sono alle prese con un esercizio difficile. Tayeba, 19 anni, dice di aver trovato nella miniatura il suo futuro. Shogoofa, 17, mostra orgogliosa l’ultima opera. «È realizzata nello stile di Behzad», precisa ustod Zama, riferendosi al più famoso miniaturista afghano, Kamal al-din Behzad, vissuto a cavallo del sedicesimo secolo a Herat, dove il suo studio calamitava allievi da tutta l’Asia.
Il futuro degli studenti dell’Istituto di arte e architettura è il primo pensiero per Francesca Recchia, che ha deciso di investire sulla creatività. «In Afghanistan, nelle facoltà artistiche non si stimola a sufficienza la creatività personale, si tende alla riproduzione di modelli standard. Per questo stiamo per inaugurare il primo centro nazionale per il design. Uno spazio flessibile, multifunzionale, realizzato con materiali locali e secondo tecniche tradizionali, ma che punti all’innovazione».Senza innovazione e capacità di fare sistema, non resta che emigrare. «Molti degli artisti raccontati nel libro realizzato con Bugnoli oggi sono all’estero».

Come loro, anche uno dei più conosciuti registi afghani, Siddiq Barmak, autore di “Osama” e di “Opium War”, ora residente a Parigi. Lo abbiamo incontrato a Kabul durante una visita. Appassionato del neorealismo italiano, educato a Mosca, come molti connazionali è stato costretto a lasciare l’Afghanistan. Rientrato dopo il rovesciamento del regime talebano, con l’aiuto del regista iraniano Moshen Makhmalbaf è riuscito a riprendere in mano la macchina da presa. Ha visto «maturare il gusto del pubblico», ha appoggiato giovani registi come Jalal Hussaini, ma si è scontrato con «il monopolio statale sulla produzione culturale» e con i pregiudizi culturali «di chi, come i Talebani, teme che il cinema raccolga più pubblico delle moschee». Da qui la scelta di Parigi. Rimane invece a Kabul il regista Musa Rad Manesh, autore di film per la tv e per il cinema, oltre che di una serie di recenti documentari sul patrimonio culturale.

Lo abbiamo incontrato mentre era alle prese con un film per la rete televisiva nazionale.
«Non miro ai premi internazionali, ma a fare un buon lavoro, che sia anche utile. Racconto storie semplici, accessibili, dai contenuti sociali. Storie di terre occupate illegalmente, di battaglie quotidiane per un po’ di giustizia. Storie d’amore contrastate, storie di donne che, in una cultura patriarcale, affermano la propria volontà», dice Musa Rad Manesh.

Una delle sue attrici (che preferisce l’anonimato), spiega quanto sia difficile però esibirsi in pubblico: «Ci sono ancora molti pregiudizi sulle donne artiste. Perfino i miei parenti mi hanno criticato per questa scelta. E una volta un tassista mi ha detto: Tuo marito deve essere coraggioso a lasciarti fare l’attrice. Se lo facesse mia moglie, l’avrei uccisa a coltellate». Pregiudizi che nascondono la paura per il cambiamento in corso. «Molti ci criticano, ma tutti guardano i nostri film». Parole simili a quelle di Yasamin Yarmal, la “madre del cinema afghano”, protagonista di decine e decine di film, oltre che di soap opera seguitissime. Già ambasciatrice di pace per il suo impegno sociale, sostiene che « la battaglia per un cinema libero da stereotipi sia parte della battaglia contro la società retrograda». Un modo, vale a dire, per riappropriarsi dell’immaginario pubblico.

Intanto, Omaid Sharifi e i suoi collaboratori puntano a riappropriarsi dello spazio pubblico. Si definiscono gli “Artlords”, un collettivo di artisti che vuole archiviare warlords e druglords, signori della guerra e della droga, attraverso le armi della vernice e dei disegni. Le alte mure di cemento che costellano il panorama della capitale, fortificata e militarizzata, sono le loro tele. Riempite di volti esemplari, da imitare, o di messaggi pedagogici. Tutti contro la corruzione. Contro la violenza sulle donne.
E contro la guerra.