In esclusiva una clip del film presentato alla Mostra del cinema di Venezia e in uscita nelle sale italiane il 14 settembre. Il regista Diego Olivares: «Ho voluto raccontare una vicenda umana sullo sfondo di una grande tragedia»

Una coppia di contadini del casertano, Cosimo e Rosaria, e la loro battaglia ostinata per impedire che i loro terreni diventino una discarica per rifiuti tossici. È la trama di Veleno, il film presentato alla settimana della critica della Mostra del cinema di Venezia – in sala dal 14 settembre – con Massimiliano Gallo, Luisa Ranieri, Salvatore Esposito e Miriam Candurro. Il racconto del dramma di una famiglia e di un’intera comunità in un territorio contaminato e abbandonato a se stesso, tra corruzione dilagante e coraggiose “resistenze”.
«Sono consapevole che la terra dei fuochi è un argomento forte – dice il regista Diego Olivares – e quando ho scelto di lavorare a questo progetto sapevo che c'era il rischio che venisse etichettato come un film sulla terra dei fuochi. Ma Veleno è prima di tutto il racconto di una vicenda umana, è una grande storia d'amore. Amore per il proprio coniuge, ma anche per la propria terra, per la propria identità e dignità. Tra l'altro ci tengo a ricordare che il film è ispirato a una storia vera, quella di un familiare del produttore Gaetano di Vaio, alla cui memoria infatti è dedicato. Un contadino morto di tumore, come tanti altri in quelle terre».

Il film è stato girato nel casertano. Come vi ha accolto la popolazione del posto?
«Siamo andati proprio nel perimetro di quella che viene identificata come “terra dei fuochi”, tra Villa Literno e Cancello Arnone. Abbiamo cercato la collaborazione del territorio, parlando con la gente del posto, con i contadini. È stato fondamentale spiegare alle persone che non avevamo intenzione di fare un film denigratorio o che in qualche modo gettasse fango sul loro lavoro e sulla qualità dei loro prodotti. E la risposta è stata positiva. C'è tanta gente “sana” e onesta che si è dimostrata molto disponibile».

Nessuna minaccia o intimidazione?
«Non abbiamo ricevuto pressioni da nessuno. Mi ha stupito, invece, la reazione di certa stampa. Mi è sembrato che il solo toccare l'argomento sia stato come infrangere una sorta di tabù».

Per esempio?
«Mi ha colpito in particolare un articolo di Libero in cui Filippo Facci, pur non avendo ancora nemmeno visto il film, lo ha definito “arte al servizio della disinformazione” e ha criticato la Regione Campania perché, a suo dire, avrebbe finanziato il nostro film “diffamatorio” pur avendo speso milioni in campagne che pubblicizzano prodotti tipici. Ma noi non abbiamo ricevuto finanziamenti dalla regione. E comunque non capisco il senso di queste critiche. Io non ho fatto un documentario, ho realizzato un film che, ripeto, non è sulla terra dei fuochi ma è una storia d'amore e di coraggio ambientata sullo sfondo di quella tragedia. Qualcosa di molto diverso».

I protagonisti parlano in dialetto stretto, con sottotitoli in italiano. Perché questa scelta?
«Non si poteva fare diversamente. Come ho detto, Veleno non è un documentario ma non è nemmeno una fiction televisiva. È una questione di veridicità, non si può raccontare una storia di bufalari e contadini della campagna casertana senza far parlare gli attori in dialetto. Sono luoghi dove l'italiano è ancora una lingua poco frequentata. Abbiamo scelto di sottotitolare perché abbiamo ritenuto che i dialoghi sarebbero stati incomprensibili per chi vive fuori dai confini della Campania. Comunque per me è fondamentale cercare sempre una verità in quello che racconto, e il linguaggio non è un elemento secondario. Avvicinarsi al modo di parlare di quelle persone, ricercare e conoscere le loro espressioni, ti aiuta a capire fino in fondo chi sono. Anche attraverso la lingua si costruiscono dei personaggi credibili».