Il professor Massimo Locatelli, autore di 'Psicologia di un'emozione. Thriller e noir nell'età dell'ansia", illustra i meccanismi che ci attirano nella lettura dei gialli. Con una tesi: "Diventa bestseller la storia che sa cogliere un timore universale"

All’arrivo dell’estate gli scaffali delle librerie pullulano di romanzi noir. Le vendite subiscono un’impennata confermando thriller e gialli come la “lettura da ombrellone” per eccellenza. Massimo Locatelli, professore di Filmologia all’Università Cattolica di Milano e autore di “Psicologia di un’emozione. Thriller e noir
nell’età dell’ansia
” (Vita e Pensiero), ci spiega perché estate e delitto vanno così d’accordo.

Che effetto fa la narrativa noir sulla psiche del lettore?
«Il thriller, nelle sue varie declinazioni, costituisce una grande palestra delle emozioni. È un mezzo con cui elaboriamo e digeriamo ansie generali e particolari. Un singolo racconto può indirizzarci verso un timore specifico, soprattutto nel periodo storico di grande tensione in cui ci troviamo a vivere. Abbiamo bisogno
di affrontare le nostre paure più profonde e il thriller rispecchia la contemporaneità più di qualunque altro. Nel passato erano le fiabe ad aiutare a tirar fuori timori di vario genere, ma dal secolo scorso questo ruolo è passato ai “crime”, più adatti a rispondere ai bisogni della società moderna».


Dunque il thriller, in periodi storici fortemente instabili, diventa un mezzo di elaborazione privata
di un’ansia collettiva?

«È uno strumento che di volta in volta si può adattare a paure diverse. Se alcuni diventano bestseller,
è perché riescono a cogliere un timore universale. E collettivo diventa anche il modo di elaborazione della paura stessa».

Il romanzo rispecchia emozioni che normalmente vengono sublimate o serve solo per evadere?
«Il bello è che risponde sia all’una che all’altra esigenza. Ci sono racconti che ci permettono di rivivere paure profonde e di identificarci con qualcosa o qualcuno, anche inconsciamente. Oppure, per esempio nei thriller procedurali, si segue un meccanismo più scientifico in cui si vuole capire l’altro, più che identificarsi con esso. È un processo catartico grazie al quale possiamo osservare da lontano la paura. Il meccanismo tipico della letteratura noir classica, da Agatha Christie a Arthur Conan Doyle, in cui si risolve un delitto,
è proprio un modo per “guardare dal di fuori”. Gli psicologi lo chiamano “mind reading”, ovvero la capacità di leggere l’altro, la soddisfazione di capire i motivi del suo comportamento. La forza del thriller sta proprio nell’aver sviluppato tante peculiarità da abbracciare entrambe le cose: rispecchiamento ed evasione».

Ma perché in spiaggia il lettore ha più bisogno di rispecchiarsi ed evadere?
«L’estate, la vacanza, sono un periodo in cui “ci delimitiamo”, entriamo cioè in una “comfort zone” dove siamo totalmente a nostro agio. E lì possiamo affrontare le nostre paure e frustrazioni attraverso le pagine di un libro riconoscendo però quest’esperienza come limitata, così come lo è la vacanza. L’essenziale
è poter cogliere il distacco tra ciò che leggiamo e il mondo esterno. Per questo i thriller che ci portano
più vicini alla cronaca, esagerando il senso di aderenza alla realtà, riscuotono in realtà meno successo
nel periodo estivo. Il thriller classico è il genere più adatto per l’estate perché cura gli stessi confini di uno spazio sacro, intimo, che è quello del viaggio. Il piacere per eccellenza che dà il thriller investigativo è quello della ricerca. In fondo quando siamo in vacanza questo “cercare”, o “capire”, non è il senso stesso del viaggio? Sono meccanismi narrativi che ci portano lontano dalla vita quotidiana e ci spingono a dedicarci
a una storia che rimane fuori da noi, anche se noi ci tuffiamo in essa completamente».