Nel documentario 'Black Code' di Nicholas De Pencier la storia delle battaglie capeggiate dal Citizen Lab dell'Università di Toronto. "Garantire i diritti nell’era dei social media significa creare regole e leggi che garantiscano che né governi né le aziende possano attaccare le nostre libertà"

I social media e la rete sono strumenti di oppressione e liberazione. Un’ambivalenza profonda, che rende difficili e sciocchi gli assolutismi: le assoluzioni quanto le condanne a priori. Oggi sono più facili le seconde, ma c’è stato un tempo, piuttosto lungo, in cui hanno prevalso le prime. In cui la “disintermediazione”, l’essere noi tutti media, era sinonimo di democrazia, uguaglianza, libera competizione e libero pensiero. Era l’utopia di una rete senza censura, senza filtri, gestita da tutti per tutti.

C’è voluto del tempo, ma si è rivelata fasulla. La rete non ha ucciso i monopoli, resa istantanea la composizione - faticosa - delle ragioni del vero, mutato ogni ignorante nell’ape operosa di un alveare intelligente. Internet è oggi sinonimo di controllo, sorveglianza, fine della privacy, del lavoro, del dialogo civile, perfino delle libertà individuali.

Ma anche questa sola visione è falsa. Il problema è che per capirlo bisogna sollevare il velo di banalità con cui apocalittici e integrati ricoprono ogni discorso riguardi “Internet”. O meglio, i fenomeni, le culture, i rapporti di potere, gli abusi e le conquiste che avvengono su Internet. 



C’è bisogno, per dirla con Ron Deibert, di “hacktivismo”. Deibert è direttore del Citizen Lab dell’Università di Toronto, un centro di ricerca che si propone di unire le abilità degli esperti di cybersicurezza e degli hacker con quelle degli studiosi di scienze sociali, e analizzare così “l’esercizio del potere politico nel cyberspazio”; un luogo dove si sommano hacking e attivismo, appunto. È lui il protagonista del documentario Black Code, tratto dal suo omonimo libro, e diretto dal regista Nicholas De Pencier

È lì, nella pellicola ancora inedita in Italia ma visionata dall’Espresso, che l’autore rivela il nocciolo della questione. “Dobbiamo incoraggiare le persone a non accettare la tecnologia per ciò che è”, dice nelle battute finali. “Dobbiamo spronarle a pensare a cosa le circonda, mettere in discussione l’autorità - se l’autorità è l’ambiente tecnologico in cui sono immerse - e comprendere che quando cominciamo a sottrarne strato a strato si vede l’esercizio di potere sottostante”. Ecco a che serve l’hacktivismo: “Se vogliamo che le democrazie liberali prosperino c’è bisogno di persone che tolgano quegli strati, e capiscano cosa sta accadendo sotto”. 

È ciò che fa il Citizen Lab, con risultati straordinari, dalla sua fondazione nel 2001. Il documentario ne ripercorre solo alcuni. Raggiunge per esempio un regista tibetano identificato dalle forze dell’ordine cinesi tramite sorveglianza delle sue comunicazioni online, e picchiato. “I tibetani sono sempre sotto controllo, a casa, in ufficio, per le strade”, dice, tramite i loro smartphone, con le telecamere di sorveglianza - e con l’aiuto delle telco cinesi. Altri sono stati meno fortunati di lui, alcuni addirittura uccisi con quello che, per Deibert, è l’equivalente di un “atto di guerra”. Ed è il lavoro del laboratorio di Toronto ad avere mostrato, per la prima volta, la GhostNet; la rete di sorveglianza digitale cinese scoperta tra il 2007 e il 2008 che ha infettato 1300 computer di alto livello in tutto il mondo, compreso quello dell’ufficio del Dalai Lama. Ma anche ministeri, ambasciate, primi ministri.

L’occhio di De Pencier vola poi in Pakistan, dove un’attivista diventa bersaglio di una campagna d’odio a base di tweet di minacce, e infine uccisa. Va ad Addis Abeba, in Etiopia, per raccogliere la testimonianza di Tadesse Kersmo, un attivista del gruppo di opposizione - bandito - Ginbot 7. L’Etiopia, dice, è uno dei paesi più poveri al mondo, con il 2% della popolazione su Internet; “eppure il governo ha speso milioni di dollari per FinFisher”, uno strumento di spionaggio prodotto da Gamma, un’azienda di quella stessa Gran Bretagna dove Kersmo era fuggito convinto di essere finalmente approdato a un paese libero, che rispetta la privacy e diritti altrui. 

“Sbagliavo”, confessa mentre il pensiero va alle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio massivo da parte dell’intelligence britannica, e alle norme anche più restrittive imposte in seguito. Sia in Pakistan che in Etiopia il Citizen Lab ha prodotto rapporti di fondamentale importanza per mappare l’uso di tecnologie di controllo a fini di repressione politica e del dissenso.

Ma è solo un lato della medaglia. La disintermediazione, infatti, è anche quella del collettivo brasilano di giornalisti-cittadini Midia Ninja. Il documentario vi si sofferma molto, perché il caso fornisce uno splendido, innegabile controesempio all’idea che in rete viaggino solo o principalmente bufale, odio e illegalità. O che ci sia una informazione tradizionale “buona”, affidabile e professionale, a cui opporre la marea montante dell’ignoranza complottista prodotta sui social media.

Il caso è eclatante. Durante una protesta a Rio lo studente Bruno Telles viene accusato di avere con sé uno zaino pieno di bombe molotov, e di averne cominciato il lancio contro le forze dell’ordine, scatenando gli scontri che ne sono seguiti. Telles viene arrestato e dipinto dai media mainstream come un facinoroso abituato alle violenze, finché Midia Ninja non chiede alla propria rete di contatti sui social media di inviare qualunque immagine o video riguardi l’accaduto. 

Arrivano cinquemila mail in 24 ore, dice un attivista nel documentario, e il resoconto che ne risulta mostra inequivocabilmente che Telles è innocente. Non aveva alcuno zaino, e anzi la prima molotov è stata lanciata da un agente travestito da manifestante - così da “legittimare l’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine”. 

I media sono costretti a ritrattare, e il giorno seguente lo dipingono al contrario come uno studente ligio al dovere e amato da tutti. La stessa viralità che ogni giorno produce bugie seriali e propaganda consente anche di salvare un innocente da un’ingiustizia. 

Ma “quanti non hanno la fortuna di essere filmati?”, si chiede il documentario. “La miglior forma di sicurezza”, replica un’attivista, sarebbe “mandare in streaming tutto”. Ed è ciò che ha fatto Midia Ninja per le proteste ai mondiali brasiliani di calcio. Ma la soluzione è anche problema, nel mondo iperconnesso: lo stesso gesto che consente la sorveglianza dal basso, della folla sul potere, permette anche al potere di identificare chi lo mette in questione, e punirlo.

Così in Siria, e in tutti i paesi della “Primavera araba” - dove sono state compagnie in molti casi europee, e anche italiane, a fornire gli strumenti di intercettazione legale poi abusati dai dittatori per tracciare, accusare, reprimere. Anche su questo il laboratorio diretto da Deibert ha svolto un lavoro egregio. 

Ecco di nuovo l’ambivalenza della tecnologia: gli oppositori al regime di Assad usavano Facebook per coordinarsi e mobilitarsi, ma seguire la pagina sbagliata - per esempio, quella dei ribelli del Free Syrian Army - è sufficiente per trascorrere mesi in galera, e subire le torture e i soprusi documentati nella pellicola.  

Che fare? Il messaggio fondamentale è che i problemi sollevati dalla tecnologia non si risolvono con la sola tecnologia: “servono la politica e la legge”, dice Deibert, sottolineando come siano proprio gli aspetti che troppo spesso diventano marginali nelle discussioni su rete e civiltà. Garantire i diritti nell’era dei social media significa invece “responsabilizzare governi e aziende, creare regole e leggi che garantiscano che né gli uni né le altre possano attaccare le nostre libertà. È questa la base fondamentale da cui partire per costruire una democrazia digitale oggi”.