La curatrice Maciel ha ribadito che sarà la vita del visitatore e dell’artista al centro di questa edizione 2017 fatta di colori emozioni, sensazioni e joie de vivre

Viva l’arte viva” strano titolo per una Biennale. Lo ha scelto Christine Macel, direttrice della 57esima edizione, che come le altre sommergerà Venezia. Questa volta poi con molti giorni in più: dal 14 maggio al 26 novembre. Viva l’arte? Cos’è, uno scherzo, una provocazione? Oppure la volontà di prendere le distanze da ponderose biennali precedenti: “La Platea dell’umanità” con cui il grande Harald Szeemann aprì il nuovo secolo; “La dittatura dello spettatore” profetica immagine di Francesco Bonami nel 2003 o la precedente “All the world’s future” di Okwui Enwezor, mostra dall’alto tasso politico che aveva al centro il capitale di Karl Marx.

Qui, invece, c’è l’esuberante grido di gioia che sembra una sfida alla contemporanea Documenta 14 di Kassel - l’altra epocale manifestazione artistica di questo 2017- dove il polacco Adam Szymczyk lanciando temi come “Il Parlamento dei corpi” o “Imparare da Atene” interroga e si interroga, dalla Grecia alla Germania, su ciò che resta della democrazia. Ed è una doccia fredda persino verso il duo di artisti-curatori scandinavi Elmgreen & Dragset che il 16 settembre dovranno aprire la loro Biennale di Istanbul con un titolo scelto mesi fa, ma che ora in tempi tanto inquieti può apparire ironico e persino inopportuno: “Il buon vicino”.

Ma a Venezia la curatrice dai grandi occhi non ha alcuna intenzione di scherzare, e molto seria in conferenza stampa ha ribadito che sarà la vita del visitatore e dell’artista al centro di questa Biennale fatta di colori emozioni, sensazioni e joie de vivre. Un entusiastico approccio in tempi poco inclini all’entusiasmo, una rigenerante visione che si oppone alle preoccupazioni geopolitiche dei suoi rivali, un energico invito a godere della compagnia degli artisti e dell’arte: «Ultimo baluardo, un giardino da coltivare al di là delle mode e degli interessi specifici, un’alternativa all’individualismo e all’indifferenza. L’arte ci costruisce ed edifica. È un sì alla vita» Macel dixit.

Trionferà allora la bella vita in questi giardini che da più di un secolo ospitano opere dal mondo, tra lavori, colori e persino cibo che la direttrice ha apparecchiato in una delle iniziative più bizzarre della sua Biennale. “Tavola aperta” ogni venerdì e sabato con uno degli artisti invitati alla Biennale pronti a consumare un intero pasto con i visitatori (prenotazione online). Si pranzerà in inglese con Kiki Smith e in italiano con Giorgio Griffa, si discuterà di cultura e politica estera con l’artista-primo ministro albanese Edi Rama, mentre Olafur Eliasson potrà spiegare come le sue Green Lights stiano portando la luce dove l’elettricità non c’è. E mentre nei Giardini o all’Arsenale si banchetta, chiunque potrà spiare e assistere al creativo desco in diretta streaming.

Non è l’unica cosa che renderà la 57esima Biennale fruibile da casa. Se la vita scorre veloce, l’occhio elettronico la può registrare, condividere, archiviare. Lo streaming sarà una parola chiave del Macel progetto. Possiamo veder così le tantissime performance che punteggeranno i mesi a venire e i giorni della vernice, e soprattutto quella rarissima degli sciamani Huni Kuin ad opera di Ernesto Neto, star dell’arte brasiliana, da anni al lavoro con la popolazione indigena non per banale esotismo ma per una ricerca di radicali linguaggi.

Poi ispirandosi tanto alle “Vite de’ più eccellenti pittori…” del Vasari che al Grande Fratello, lo sguardo di questa Biennale profanerà la privacy degli artisti mostrando in rete le loro case e i loro studi, mentre seguirà giorno dopo giorno per ben sei mesi il lavoro del performer newyorkese Dawn Kasper, il quale si è trasferito armi e bagagli in una sala dei Giardini e vivrà lì fino a novembre per sfatare la leggenda dell’artista maledetto in preda a raptus creativo. E mostrare il volto del professionista, disciplinato e rigoroso, necessario al compimento di un’opera contemporanea.

Il visitatore che invece vorrà affrontare fisicamente “l’arte viva” si troverà probabilmente di fronte a un percorso a tinte forti, spettacolari ad alto tasso emotivo che parte dal Padiglione Centrale ai Giardini e si snoda poi per tutto l’Arsenale. Nove “trans padiglioni”, come da definizione della Macel, che guidano «un viaggio dall’interiorità all’infinito» (parole sue) attraverso stazioni che parlano di Gioia e Paura; Spazio Comune, Terra e Tradizioni; Sciamani e Dionisiaco; Tempo e Infinito fino al Padiglione dei Colori dove «tra sensibilità e trasparenza, luce e spiritualità si vive un’esperienza atipica, una sorta di fuoco d’artificio in cui convergono tutte le precedenti questioni» (ancora parole sue).

E di esperienze atipiche se ne vivranno parecchie in una Venezia già dominata dall’hollywoodiana e immaginifica messa in scena di Damien Hirst con il suo ritrovato tesoro (“Treasures from the Wreck of the Unbelievable”) che tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana è pronto a contare entro la chiusura del 3 dicembre un record assoluto di visitatori, e nello stesso tempo a dire addio alle preoccupazioni concettuali che hanno accompagnato la ricerca del Novecento.

Siamo a un nuovo corso? La spettacolarità, la passionalità, la sorpresa, il palpito sono ora le parole d’ordine che hanno preso il posto di sperimentazione, ricerca, linguaggio? La vita dell’artista diventa più importante dell’opera? La narrazione sostituisce l’analisi? Gettando uno sguardo sui padiglioni nazionali dalle Americhe all’Australia che punteggiano i Giardini, non si direbbe. L’obbedienza al tema suggerito dalla Mostra internazionale non è un obbligo per questa placida Società delle Nazioni che da più di un secolo abita la laguna. Un club delle arti che non sembra essere scosso dai turbamenti politici e bellici che minacciano la quiete del mondo.

Di certo non qui, dove Stati Uniti e Russia si fronteggiano diplomaticamente, il primo con i lavori sostanzialmente pittorici di Mark Bradford, talentuoso artista nero californiano; il secondo con un progetto a più voci dal titolo “Theatrum Orbis”, che grazie a un dichiarato budget di 800mila dollari unisce scultura, elaborazioni digitali, progetti sonori.

Gli inglesi, poi, in tempi di Brexit celebrano l’eccentrico nome di Phyllida Barlow, diretta discendente di Charles Darwin, membro della Royal Accademy ma scultrice sui generis, costruttrice di strutture in precario equilibrio anni luce lontane da qualsiasi idea di monumentalità e celebrazione di valori britannici. Forse solo gli spagnoli ci riporteranno ai sussulti della realtà affidandosi all’impegno del bravissimo artista/cineasta Jordi Colomer e a quello sguardo, ironico, chirurgico e sociologico con cui nelle sue opere racconta architetture, città e condizione umana.

Più in là, nell’Arsenale ritroveremo insieme nella Sala d’Armi la Turchia con gli Emirati Arabi e l’Argentina, ma mancherà la Santa Sede e quel suo gesto rivoluzionario ai tempi di Papa Ratzinger di cercare un dialogo fra la spiritualità e la cultura visiva contemporanea, interrotto dopo due Biennali da un criptico e asciutto comunicato, da cui sorge il dubbio che l’arte del XXI secolo non s’addice alla Chiesa di papa Francesco. Tornano invece le isole Tuvalu, un microstato di appena 26 chilometri quadrati e soli quattro metri sopra il livello del mare. Un piccolo gioiello di natura e architettura, a rischio di sparire per sempre sommerso dall’innalzamento delle acque della Polinesia. Ogni loro partecipazione rischia di essere l’ultima: ogni opera lancia un monito e un appello perché la salvaguardia dell’ecosistema qui è questione di vita o di morte.


Uscendo dall’Arsenale ecco le Tese con il patrio ed esagerato Padiglione Italia (1.800 metri quadrati, più del doppio di ogni altro). Reduci da alcune pessime edizioni siamo finalmente nelle mani di un bravo curatore, Cecilia Alemani, e di tre ottimi artisti (Roberto Cuoghi, Giorgio Andreotta Calò e Adelita Husni-Bey) nati tra gli anni Settanta e Ottanta. Tutti con storia simile a Cecilia: formazione italiana, specializzazione internazionale. Forse quel titolo “Il mondo magico” potrebbe riecheggiare l’inno alla vita della mostra di Christine Macel, ma in realtà è ben più radicato nella cultura del Novecento e si ispira alla foresta di simboli e ai misteri del pensiero magico che il filosofo-antropologo Ernesto De Martino cercò di decrittare nell’omonimo libro del 1948.

Ma oltre i codificati confini della Biennale, in quella Venezia dove i palazzi nobiliari si preparano a far festa e i padiglioni extra Giardini come l’Iraq (Palazzo Cavalli-Franchetti, vedi box), Portogallo (Giudecca), Cuba (Palazzo Loredan) son pronti ai tanti brindisi inaugurali, l’appello della Macel trova imprevisti seguaci. Un “Breakfast Pavillon” ad esempio sarà allestito nella galleria “A plus A” in calle Malipiero e nei giorni del vernissage tre stimati artisti (Anna Sophie Berger, Olaf Nicolai, Nicole Wermers), tra le 10 e le 12 prepareranno una colazione sui generis perché l’arte sia discussa, prodotta, performata e mangiata.

Oppure val al pena di inerpicarsi lungo le Fondamenta Sant’Anna, per incontrare il minuscolo negozietto metafisico dove il nostro Flavio Favelli, reduce dalla bellissima mostra all’Albergo Diurno di piazza Oberdan a Milano, dall’8 al 14 maggio venderà a prezzo politico lavori artigianali costruiti al momento.

E se in un caso si sperimenta l’approccio amichevole alle arti, dall’altro sarà bene ricordare che tra ponti e canali trionfa anche l’insegnamento di grandi maestri. Ed è un dovere segnalare che, a San Giorgio, il lavoro di Alighiero Boetti rivisto da Luca Massimo Barbero e da un progetto speciale di Agata Boetti e Hans Ulrich Obrist racconterà tra “Minimun/Maximum” qualcosa che ancora non sappiamo di una delle menti più lucide e sorprendenti del ventesimo secolo; che nel giardino della Fondazione Querini Stampalia vedremo l’incontro ravvicinato tra le pietre di Carlo Scarpa e quelle del grande Anselmo, rigoroso testimone dell’Arte Povera; che nella Fondazione Prada di Ca’ Corner lavoreranno insieme ad un progetto totalizzante personalità eccezionali come lo scrittore-regista Alexander Kluge, l’artista Thomas Demand e la scenografa Anna Viebrock.

Ma soprattutto non si può perdere l’incanto e l’incubo che Jan Fabre regala nel misterioso chiostro dell’Abbazia di San Gregorio sotto un titolo che è un viatico: “Glass and Bone”. La fragilità e la bellezza, il memento mori e la meraviglia, la potente fantasia fiamminga e l’eterna simbologia che governa l’iconografia dell’Occidente. Lì, proprio a due passi da Punta della Dogana dove Damien Hirst mostra i muscoli di un immaginario degno di un kolossal, le trasparenze del vetro di Fabre raggiungono quelle profonde verità di una creazione antica da cui nasce la paura e la bellezza. E qui sì che vien da dire : «Viva l’arte».