Mettere in piedi un sistema per attirare risorse. Senza banalizzare. La ricetta del manager della Biennale

Il successo della Biennale di Massimiliano Gioni? È nella discesa ai bisogni primari dell’arte. Perché nei momenti di crisi, Wagner insegna, si scende alle Madri o dalla Grande Madre a chiedere consiglio e lei risponde con un dilemma ancora più enigmatico....».

E si vorrebbe restare a parlar di Madri, Sibille e Maghe Circe, circondati dai libri del bellissimo studio in legno chiaro di Paolo Baratta, presidente della Biennale più visitata della sua storia. Ma la domanda che ci spinge qui, è un’altra, molto meno filosofica: «Come mai nell’anno nero 2013, nel precipizio delle istituzioni culturali italiane, la sua Biennale, presidente, è stata l’eccezione tutta vestita di segni più?». Più partecipazioni nazionali. Più visitatori. Più giovani e studenti. E persino più soldi. Un milione e mezzo di utile con cui il 24 novembre si son chiusi i cancelli, per lanciare appena una decina di giorni dopo, il nome molto internazionalmente stimato del prossimo direttore Arti Visive. L’afro-americano Okwui Enwezor che si aggiunge a Rem Koolhaas, big name della Biennale architettura.

Il presidente Baratta non può che essere contento. L’ha presa in mano sull’orlo del collasso questa Biennale e in due mandati (1998-2000 e dal 2008 ad oggi) l’ha riportata alle passate novecentesche glorie, che son ancor più glorie in epoca globale ora che la Biennale allarga la sua fama dal mondo occidentale ai quattro angoli del pianeta. Ma la sorpresa è soprattutto che ciò accada in quest’angolo qui, dove abitiamo noi italiani, cittadini funestati dalla spending review, dai crolli di Pompei, dalla crisi di governance dei musei, dalla colpevole indifferenza (quando non è ignoranza) della classe politica verso le istituzioni culturali, da legislazioni pasticciate e da conflitti di competenze tra Stato-regioni-province-comuni. Tutte trappole che incatenano come Prometeo, gran parte della cultura italiana, tranne la Biennale che chiude l’anno col sorriso, i conti a posto e un futuro da grandi speranze.

Oltre 400 mila visitatori. Un pellegrinaggio di giovani. La biennale degli zainetti come lei l’ha definita... Presidente Baratta a chi va il merito di tanto successo? Alla popolarità dell’arte contemporanea? A Venezia? Alla mostra di Gioni? O a lei?
«Al fatto che siamo sulla strada giusta. Fino a qualche anno fa l’arte contemporanea era degenerata, poi reietta, poi ignorata infine frequentata. Ora c’è consuetudine. Molti pensano che non sia merito dell’arte, ma delle macchine del successo e del denaro intorno all’arte. Eppure la biennale di quest’anno è stata completamente spiazzante. Non c’era un Jeff Koons, niente Damien Hirst, ma solo domande profonde sul piano estetico e politico. Abbiamo messo i bastoni fra le ruote a un meccanismo conformista e questo ha funzionato».

Ma ha funzionato anche Venezia che è scenario unico al mondo...
«Venezia è importante, è una città del dialogo mondiale dove ognuno si sente cosmopolita. Ma è solo un punto di partenza. Luogo di un turismo escursionista che non è il nostro pubblico.Quel che fa la fortuna della Biennale e che ogni istituzione culturale deve avere chiaro in testa, è l’aver saputo curare e conquistare la fiducia degli altri. Ha dimostrato di essere un’istituzione libera, governata da persone non compiacenti con un processo limpido che ha continuità nel tempo. Perché l’andirivieni delle governance, le messe in crisi, i commissariamenti delle nostre istituzioni culturali distruggono ogni fiducia».

A chi si riferisce? Al Macro di Roma, al Museo Rivoli di Torino, al Pecci di Prato... c’è ampia scelta.
«Senza andar lontano anche alla Biennale di ieri con 20 membri del consiglio che litigavano fra loro, anni senza festival, mostre che cambiavano date. Non poteva funzionare così. Come non poteva e non può funzionare fare affidamento sui contributi pubblici sempre crescenti. Se si voleva ritrovare prestigio e collocazione internazionale era necessario mettere in piedi un sistema per attirare risorse»

Non facile, di questi tempi. Ha qualche buona idea?
«Per prima cosa bisogna costruire pubblico. Fidelizzarlo. Perché avere un pubblico significa svolgere la propria funzione ed è un obiettivo che precede l’avere un fatturato. Ma conquistare un pubblico non significa fare pagliacciate consumistiche o trasformare il museo in una Disneyland. La materia che noi trattiamo è complessa e dobbiamo spiegarlo al mondo. Non siamo qui per spacciare semplicità. In troppi musei italiani c’è l’idea che per aver pubblico basta banalizzarsi, usare specchietti per allodole e invece, lo ripeto, è grave errore. La Biennale più complessa ed enigmatica della sua storia è anche quella che ha visto il maggior successo di pubblico. Perché arrivare fin qui è fare un pellegrinaggio in un luogo dove si ha la certezza di vivere un’esperienza. Fiducia è la parola chiave. Perché non puoi deludere il pubblico soprattutto quando lo stai cercando. Sono convinto che molta parte delle crisi attuali sia dovuta al fatto che il tasso di fiducia reciproca è calato disperatamente. I risparmiatori non hanno fiducia nelle banche, io non ho fiducia nel mio venditore, quando si arriva al vicino di casa è guerra civile».

Lei parla più come un filosofo che come un manager culturale.
«Manager culturale è una definizione che mi ha sempre lasciato perplesso. Funziona meglio se a occuparsi di cultura sia chi ha l’orgoglio di appartenere alla classe dirigente. Comunque, ora sto parlando da puro economista che non significa occuparsi degli andamenti delle Borse. Adam Smith prima di scrivere “La ricchezza delle nazioni” scrisse un trattato sui sentimenti morali per capire non tanto quale fosse la mano invisibile che muove le economie, ma quella della coesione sociale. La quale non si fonda sullo scambio dei prezzi ma sulla simpatia e approvazione dell’altro per essere riconosciuto membro della società»

Presidente ci stiamo allontanando dai nostri temi.
«Invece è questo il tema. I segni di fiducia verso il futuro in un momento di crisi non può darli l’economia che è la principale vittima della sfiducia. Devono essere le istituzioni politiche e culturali a mantenere alto il tasso di fiducia e a fare da collante di una società. È proprio questo che gli si chiede».

Non sembra però che lo Stato si stia impegnando a difendere le istituzioni culturali.
«Non possiamo pretendere in mezzo a un crisi tanto grave di dipendere esclusivamente dallo Stato. Io sono diventato presidente a seguito di una riforma che ha permesso a una Biennale di fatto fallita di restare ente pubblico ma con possibilità di operare autonomamente grazie a contratti di tipo privatistico e quindi sganciati dalle ingessature del sistema pubblico».

Tradotto in pratica?
«Posso, per esempio, dare gratifiche ai miei quando fanno miracoli, assumermi rischi imprenditoriali, decidere di pagare una percentuale a un’agenzia che mi aiuta a trovare sponsor, costruire insomma una compiuta gestione. Io non sono a capo di un agenzia di mostre ma di una istituzione dotata delle energie necessarie per promuovere e gestire un programma. Quindi devo avere un visione, una prospettiva nel tempo. Per fortuna il legislatore italiano ha costruito questo tipo di soggetti che pur essendo pubblici possono svolgere funzioni di impresa. Insomma acquisto la mia indipendenza a patto che poi, alla fine dell’anno, non corra da papà a chiedere i soldi».

È questo che vi ha permesso di essere per la prima volta in utile?
«Chiamiamolo pareggio. Di fatto è un prudenziale accantonamento da reinvestire sulla Biennale architettura. Del resto non è mio compito fare utili».

Dunque il modello della Biennale secondo lei potrebbe essere esportato su altre realtà pubbliche.
«Certamente. Penso agli archivi di Stato, ad esempio. Con una natura analoga a quella della Biennale, la libertà di agire fermi restando i vincoli e il rispetto delle regole di conservazione, sarebbero una miniera fantastica per iniziative culturali. Invece sono tombe di documenti per pochi studiosi. Istituzioni messe da parte che non riescono a farsi sentire quando le voci forti si spartiscono i soldi»

Chi fa la voce forte?
«In Italia abbiamo i soprani acuti che sono le fondazioni liriche e i tenori del do di petto che è tutto il sistema cinema. Ma a difendere gli archivi non c’è neanche un basso continuo. Li ha mai sentiti nominare come parte dei beni culturali?»

La preoccupano così tanto gli archivi?
«Per capire dove siamo non possiamo fare a meno del passato. Le grandi esposizioni, Biennali comprese, ce lo dimostrano. Ovunque emerge un desiderio generalizzato di creare un ponte con il secolo passato, un desiderio di guardare al contemporaneo attraverso l’assorbimento del moderno e di riafferrare quel Novecento dove è nato tutto ma che è stato davvero un secolo troppo breve»

Per questo dovrebbero esserci anche i musei. Ma abbiamo costruito grandi macchine museali, firmate da star dell’architettura, e ora sono più o meno tutte in crisi. Lei sa perché non hanno funzionato?
«Per capirlo basta alzare lo sguardo sulla Germania. Subito dopo la guerra si capì che era necessario tornare diffusamente sulla cultura, non solo per ripresentarsi al mondo dopo il nazismo ma per ripresentare la Germania a se stessa. Il progetto è stato perseguito con impressionante dovizia di mezzi ma soprattutto radicato in tutto il territorio. Città piccole e medie si sono fornite di kunsthalle, auditorium, biblioteche. I vari länder si sono lanciati in una competizione nel fornire strutture, servizi e eventi. Persino la spending review di Schroeder non ha intaccato il welfare culturale. Insomma i tedeschi hanno creato un sistema. Noi abbiamo invece costruito edifici. E trovare i soldi per costruire è sempre più facile che trovare quelli per gestirli. E soprattutto in molti di questi edifici manca l’individuazione della vera missione. Perché da qui non bisogna aspettarsi singoli eventi ma la costruzione di un’identità che deve essere perseguita nel tempo. L’unico esempio positivo che vedo è il Mart di Rovereto, che ha dietro le spalle un territorio orgoglioso del suo museo e convinto nel sostenerlo con mezzi pubblici e privati. E accanto a questo ha costruito una forte e chiara programmazione».

Ma lei ha appena detto che la Germania ha impegnato soldi pubblici per edificare il suo sistema culturale. Qui invece si va avanti a tagli dolorosi.
«Il rapporto fra istituzioni culturali e finanziamenti pubblici dovrebbe somigliare alla parabola dei talenti. Se non ti do niente è evidente che non ti consento di iniziare il tuo viaggio, ma con quel che ti do devi tornare da me tra cinque anni e raccontarmi che cosa hai fatto. Insomma da una parte non si può pretendere di dipendere completamente dal pubblico, ma dall’altra lo Stato non può abbandonare i giacimenti culturali e nello stesso tempo farne la sua bandiera. In più per giustificare lo scarso investimento sul contemporaneo si difende con lo slogan “valorizziamo quel che c’è”. Quando sento dire che noi siamo il Paese con più beni culturali al mondo mi sta bene solo se la frase seguente è “pertanto dobbiamo mantenerlo e quindi scucire dei soldi”. Ma quando sento dire: “Siamo il paese con più beni culturali al mondo e quindi dobbiamo farci dei soldi” mi cascano le braccia. È davvero immorale continuare a pensare di vivere di rendita su beni cadenti senza alcuna spinta a spendere un soldo nella loro difesa e tutela».