Sandro Veronesi va sulla tomba di Calvino. Chiara Gamberale su un'isola greca, dove abbandona una copia del manoscritto. Maurizio De Giovanni si chiude in casa. Chiara Valerio si compra un paio di occhiali nuovi. Vizi, manie, tic degli scrittori alla vigilia dell'arrivo in libreria delle loro creature. Che da quel momento diventano di tutti

Sandro Veronesi, ogni volta che finisce un romanzo, prende la prima pagina del manoscritto e la strofina sulla tomba di Italo Calvino a Castiglione della Pescaia. «Faccio una bruschetta». Intorno alla lapide ci sono piante di rosmarino, non mancano gli odori.

Marcello Fois, per scaramanzia, si mette le mutande e i calzini alla rovescia. Chiara Gamberale scrive su un’isola greca e abbandona l’ultima stampata nella baia che le è piaciuta di più, che se la porti il vento. Ma c’è anche chi, come Sandro Bonvissuto, non si taglia i capelli fino a quando il libro non compare in libreria. «Adesso sembro il cugino di Torvaianica di Bob Marley», dice, «mi sono venuti i dreads. I neri per strada mi gridano: Aò, datte ’na pettinata». Invece Rossella Milone il giorno prima dell’uscita se li tinge, i capelli, «come quando ti lasci con qualcuno e devi reinventarti, e trasformarti in una persona diversa».
Giordano Meacci non pulisce lo schermo del computer fino a quando non ha finito un lavoro: «È il rito della ripulitura del dopo consegna». Forse per questo i suoi computer a un certo punto impazziscono: «Per protesta?». Maurizio De Giovanni si chiude in casa per un mese, in tuta, non si lava e non si fa la barba (ci tiene a precisare che cambia la biancheria, però). Quando torna nel mondo, ha un fuso orario diverso. Magari ha scritto una storia ambientata a Natale e non si capacita che sia estate. Patisce gli sbalzi climatici, come dopo un viaggio.

Chiara Valerio si compra un paio di occhiali nuovi: «Sono una cosa che tengo sempre in faccia, e così mi ricordo che il libro esiste, li ho pagati con i soldi dell’anticipo». Alberto Garlini cerca segni ovunque. Se perde un treno, pensa che il romanzo andrà male. Se vede una persona che fa un gesto come il suo protagonista, si convince che andrà bene. «Tutto il mondo sembra lanciarmi segnali», confessa. Gaia Manzini tratta le prime copie che riceve come un cavallo: accarezza e bacia la copertina, per incitare la creatura alla corsa. E quando salta un ostacolo, magari una recensione, si fa un regalo (lo zuccherino?). Valeria Parrella, dopo aver dettato le ultime correzioni, strappa le pagine della stampata, una per una. Ma non le butta nel cestino, no. Le butta per terra. Il pavimento del suo studio coperto di fogli bianchi, come dopo una nevicata. Per lei è proprio importante il gesto: strappare. Nasce «dall’ansia che il romanzo possa esistere intero, da qualche parte, in una versione approssimativa».

Luca Ricci sente il bisogno di tirare a canestro: «Il mio ultimo libro è uscito a gennaio e Roma era sotto un nubifragio: allora mi sono precipitato da Tiger e ho preso un minibasket da tavolo». Mauro Covacich disegna una mappa con i nessi fra i personaggi (in “L’esperimento” è pubblicata): «Creo una specie di piantina e me la tengo lì. Come un controcanto grafico del libro». Elena Stancanelli prenota voli per destinazioni assurde. Non salirà mai su quegli aerei, ma «conta la possibilità di scappare». Evelina Santangelo scappa davvero, invece: in campagna. Si infila gli stivali di plastica e si mette a raccogliere «asparagi, borragine, che urtica tantissimo le mani, ma anche limoni, arance, mandarini». «Mi arrampico sugli alberi, e non importa se mi rompo l’osso del collo. Scarico la tensione e l’ansia così».

Alessandra Sarchi cade in narcolessia, «un po’ come fanno gli animali che hanno bisogno del letargo per rifarsi la pelliccia, il grasso bruno: io così mi preparo all’esposizione agli elementi». E quando si sveglia canta ossessivamente arie dal Rinaldo di Händel, tipo “Cara sposa”. Teresa Ciabatti anche cade in narcolessia. Si chiude in casa. Più precisamente a letto. Più precisamente ancora, davanti alla tivù, che guarda ventiquattro ore su ventiquattro, guai se marito e figlia la disturbano. Del resto, quando si alza è peggio. «Comincio a guardare ossessivamente le classifiche online, in genere posizioni bassissime, e festeggio le minime variazioni, tipo il passaggio da 10200 a 10150. Questa scalata la comunico subito all’editore, che naturalmente mi ignora. Adesso mi sono data una calmata, ma una volta rispondevo anche a tutte le stroncature online. Una per una. Mi prendevo gli indirizzi su Ibs, in passato c’erano, mi mettevo a litigare e cercavo di far cambiare idea allo stroncatore». Ora è candidata allo Strega e in classifica c’è davvero, ma è bello non dimenticare.

Poi c’è chi viene graziato dalla fortuna, come Nicola Lagioia: «Sono sopravvissuto allo Strega solo perché in quel periodo facevo il selezionatore alla Mostra del Cinema di Venezia. Da maggio a luglio dovevo stare al Lido e vedere almeno dieci film al giorno». Sempre chiuso in una sala, quasi in un mondo a parte, si è difeso dall’ansia. Solo Paolo Giordano non ha la sindrome da uscita, perché ha consumato tutte le nevrosi prima. Più la consegna si avvicina, più aumenta la sua ipocondria (l’intervista è stata fatta mentre andava dal medico). Comincia a diventare dipendente da siti come My Personal Trainer, in cui tu elenchi i sintomi e loro ti rispondono con diagnosi spaventose. «Per me l’uscita semmai è la guarigione», dice. Francesca Serafini prenota in anticipo l’osteopata e ordina in farmacia il Voltaren, sa già che nelle ultime settimane si trasformerà nella “Poltromamma” di Savinio e che la tensione finirà nella schiena. Gaja Cenciarelli, appena sa la data di uscita, si convince che le diagnosticheranno una malattia mortale, ma non va dal medico perché è un’ipocondriaca a rovescio («della varietà struzzo»).

Jhumpa Lahiri, per il primo libro, “L’interprete dei malanni”, con cui avrebbe vinto il Pulitzer, aveva affittato un appartamento a New York per lavorare lontano da tutti. Ma appena ci è entrata, ha sentito un formicolio al braccio: si era paralizzata la mano destra. Per quindici giorni ha usato solo la sinistra, schiacciando i tasti tastiera con un dito solo. «Forse sapevo che la mia vita sarebbe cambiata per sempre e consegnare mi faceva paura», dice.
Il catalogo è questo (ma volendo, si potrebbe costruire una splendida collezione). Messi in fila, nevrosi dopo nevrosi, gli scrittori sembrano tutti da Tso. Non è così, è gente anche fin troppo equilibrata, e che fa molta fatica a esserlo. È il mestiere che destabilizza. Ma in quella fase, assomigliano tutti alle tartarughe che stanno in bilico sulla fontana di Piazza Mattei, a Roma, e zampettano in aria, prima di essere buttate nella vasca.
Il momento della consegna del romanzo è lo spartiacque più delicato. C’è chi lo patisce prima e chi dopo, ma la cesura è quella, come fra una vita e un’altra. Solo che gli scrittori ne vivono tante, di vite. Circa una a libro. E ogni volta la considerano l’unica, almeno fino a quando non comincia la successiva. Per alcuni liberarsi del romanzo è un sollievo.

Valeria Parrella si sente come quando scendeva gli scaloni della Federico II dopo aver dato un esame all’università. «Ho condotto la barca in porto nel migliore dei modi», pensa, «posso andare dal parrucchiere e al mare con le mie amiche». È una sensazione di «pienezza» e la sta provando adesso che “Enciclopedia della donna” (Einaudi) è in libreria. Sandro Veronesi è così in pace che non ha più paura di morire come Roland Barthes, investito da una macchina. Almeno ha fatto tutto quello che doveva fare.

Altri invece vivono una specie di depressione post-partum, come Marcello Fois e Alberto Garlini. «Sembro tranquillo», dice Fois, «ma è una rimozione, perché mi viene un’ansia terribile. Anche se il romanzo è finito, non mi piace consegnare, lo faccio solo quando mi minacciano fisicamente. Aspetto che sia lui a dirmi che vuole essere consegnato, ma non lo fa mai».

“Del dirsi addio “(Einaudi) è uno splendido noir appena uscito. Se da un lato la separazione dal libro crea un malessere, dall’altro, come spiega Alberto Garlini, che ha di recente pubblicato un raffinato trattato di narratologia travestito da giallo all’inglese, “Il fratello unico” (Mondadori), i romanzi possono essere trappole: «A volte ho paura di rimanerci dentro, di non riuscire a tornare alla realtà. Entro in una sorta di depressione forse perché non è più mio», dice, «mi sento fragilissimo come quando fai una dichiarazione d’amore a una donna e non sai se lei la accetterà».

Luca Ricci, che sulle nevrosi degli scrittori ha scritto dei racconti, “I difetti fondamentali” (Rizzoli), fra cui uno divertentissimo proprio sull’uscita, “L’invidioso”, contesta invece questo concetto: «Il libro può andarsene pure dove vuole e gli altri possono anche appropriarsene, ma resta mio!». Evelina Santangelo, che ha appena finito il nuovo romanzo, “Fantasmi”, sposta il confine della separazione più indietro: «Il momento peggiore è quando arrivi all’ultima pagina e sai che, scrivendola o comunque dandole la forma definitiva, ti congederai per sempre dalla tua storia e dai tuoi personaggi. Gente con cui hai trascorso mesi in un dialogo intimo e ininterrotto. Ti senti svuotata, invasa da un senso di amarezza e già di nostalgia».

Tutti comunque dicono che questo passaggio è più o meno dolente a seconda dei romanzi pubblicati. Quando la materia è incandescente come in “Tempo di imparare” (Einaudi) di Valeria Parrella o in “La più amata” (Mondadori) di Teresa Ciabatti o in “La notte ha la mia voce” (Einaudi Stile Libero) di Alessandra Sarchi, libri meravigliosi e struggenti che costano molto dolore a chi li scrive - «Come aprire il forno senza guanti», per usare un’espressione di Parrella - è ovvio che l’aspettativa cresce, e con quella la fatica di gestire l’uscita. Teresa Ciabatti, sempre autoironica, ribalta l’angoscia così: «A me fa veramente paura la televisione, tutto quello che riguarda la mia immagine. Assumerei volentieri una finta Teresa Ciabatti, magra e un po’ più giovane, da mandare in giro al posto mio».

C’è chi va ossessivamente in libreria per controllare se il romanzo è stato esposto bene, come Luca Ricci, e chi smette di andarci per mesi, come Mauro Covacich. E chi, come Nicola Lagioia, organizza presentazioni su presentazioni, non tanto per promuovere il libro, quanto per riempire il vuoto lasciato dalla scrittura, un’abitudine di anni che si interrompe all’improvviso e ti lascia «orfano della giornata lavorativa». Su un’unica cosa sono tutti d’accordo: il momento più bello è quello che va dalla consegna dell’ultima correzione fino al giorno dell’uscita. Mentre il libro è in stampa, l’autore può finalmente dimenticarsi di averlo scritto.
«Chi non vuole non spera e non teme nulla, non può essere un artista», scriveva Anton ?echov. «Sia questa una malattia o no, poco importa».