Il 13 aprile esce nelle sale ‘Un altro me’, il nuovo docufilm di Claudio Casazza. Il risultato di un anno passato in carcere con i detenuti per violenza sessuale insieme a un team di criminologi e terapeuti. Un progetto sperimentale sul recupero dei  sex offenders 

Sagome nebulose, i protagonisti sono fuori fuoco. Un cambio campo e appaiono nitidi il verde dei cancelli e dei muri, i chiavistelli dorati e i corrimano di ferro. Siamo nel carcere di Bollate e le sagome che raccontano di loro davanti alla telecamera sono quelle di Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino, Enrique. Tutti hanno esercitato violenza contro una donna e sono stati riconosciuti colpevoli. Questo è ciò che dà l'input al nuovo film di Claudio Casazza, 'Un altro me', che esce nelle sale italiane il 13 aprile.

Premiato dal pubblico sia al Festival dei Popoli di Firenze che al Mese del Documentario, il lavoro di Casazza è il risultato di un anno passato nella Casa di reclusione di Bollate, a Milano, al seguito dell'Unità di trattamento intensificato del team di criminologi guidato da Paolo Giulini. Impegnati in un progetto sperimentale di trattamento dei colpevoli di reati sessuali, i cosiddetti sex offenders, i terapeuti lavorano per ridurre la possibilità che i detenuti, una volta scontata la propria pena, tornino a commettere lo stesso tipo di reato.

Il film, prodotto da Graffiti Doc con il sostegno del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, del Piemonte Doc Film Fund e distribuito da Lab 80 film, è un viaggio negli spazi fisici e nelle dinamiche mentali in cui vivono i protagonisti. Cosa pensano del proprio reato? Quali sono gli alibi culturali con cui lo spiegano? Come cercano di deresponsabilizzarsi e come immaginano di comportarsi una volta usciti dal carcere?
I detenuti si raccontano, senza sconti, e il team di Giulini li guida, li ascolta, si scontra con le loro resistenze, discute al suo interno su come procedere con il lavoro.

Casazza si muove in punta di piedi tra i corridoi del carcere, avvicinando con discrezione i protagonisti del suo documentario. Il fuori fuoco costante assicura anonimato, certo, ma anche la sensazione che ciò a cui lo spettatore sta assistendo è un piccolo spaccato sociale che esiste e che potrebbe avere il volto di chiunque. «Volevo riuscire a mantenere un terreno equidistante tra gli autori dei reati e l’istituzione che li cura, ponendomi virtualmente al centro tra gli uni e gli altri, e rendere il film un territorio aperto in cui affrontare la discussione portando i propri dubbi e le proprie certezze», ha dichiarato il regista.

La violenza sulle donne, quella cesura netta che comporta un “prima ed un dopo” nella vita della vittima, la descrive con estrema franchezza e lucidità Liliana, coraggiosa testimone che entra in carcere per raccontare la sua drammatica storia di abusi. Un racconto spiazzante e coraggioso, che lascia attoniti gli interlocutori con cui Liliana parla di sé, gli stessi carcerati.

Ed è lì che la donna, considerata mero oggetto sessuale dalla maggior parte di coloro che si sono macchiati del reato di violenza, inizia ad avere un volto ed una voce.
La donna che provoca, che “se l’è cercata”, diventa una persona in carne ed ossa a cui è stata strappata la propria adolescenza e la propria identità. Da questo però si può scappare e ricominciare con con estrema consapevolezza. Lo si fa insegnando agli uomini ad amare se stessi e le proprie compagne, conoscendone il corpo e la sessualità; attraverso l’analisi dei propri desideri, raccontando della propria famiglia e dei propri errori.

La violenza si combatte con l’educazione alla differenza e 'Un altro me' ci testimonia che il percorso di riabilitazione è lungo, ma è possibile solo scardinando alibi e costruzioni culturali che non reggono più.