Franzen. Sepúlveda. O’Brien. Sarebbero gli stessi senza i professionisti che ne traducono le opere in italiano? Gli alter ego dei grandi si raccontano. «Ogni autore, anche se è un amico, va trattato come fosse morto. Non deve diventare troppo umano»

Jonathan Franzen sta viaggiando sulla Salerno-Reggio Calabria con la sua traduttrice italiana di Einaudi, Silvia Pareschi, per scrivere un reportage sul bracconaggio nell’Europa meridionale. È il 2012. «Franzen è un appassionato birdwatcher e a furia di seguirlo mi sono appassionata anch’io», racconta Pareschi. Partono da Napoli e arrivano fino a Messina per visitare alcune oasi Lipu e Wwf, intervistando ornitologi e guardie forestali.
«Ci svegliavamo molto presto, ma ci davamo appuntamento per dopo la colazione perché nessuno dei due amava parlare al mattino. Al volante c’era sempre lui, che si divertiva a tenere testa all’aggressività dei guidatori italiani, ma io mi guadagnai il suo rispetto quando fui la prima ad accorgermi che avevamo forato. Un mattino uscimmo in cerca di cacciatori di frodo accompagnati da due finanzieri armati di mitraglietta, ma non trovammo nessun bracconiere, solo dei tizi che giocavano alla guerra e un raccoglitore di asparagi selvatici che si spaventò tantissimo alla vista dei finanzieri armati».

A Messina «Franzen vide un paio di uccelli che non aveva mai visto, e secondo la tradizione locale dovette offrire due gelati ai membri della squadra (il gelato non gli piaceva, ma lo mangiò lo stesso perché la sua impeccabile educazione da Midwestern gli impediva di rifiutarlo)».

Oltre all’interesse ornitologico, Franzen e Pareschi condividono l’intolleranza al rumore. Lo scrittore lavora spesso al buio con un paio di cuffie cancella-rumori e ha regalato a Silvia «un file mp3 contenente un’ora e venti minuti di “rumore rosa”, un tipo di rumore statico usato per bloccare i suoni di sottofondo», di cui lei ormai non può più fare a meno.

Siamo abituati a leggere i grandi scrittori stranieri attraverso le parole dei loro traduttori, ma non ci chiediamo mai quale rapporto c’è fra queste due voci. Umano, per esempio. Se si va a scavare un po’, si scoprono storie di grande amicizia. L’affiatamento spesso va ben oltre il testo, è qualcosa di molto personale.

«Il rapporto fra traduttore e autore è un matrimonio combinato dall’editore», dice Ilide Carmignani: «Non è detto che funzioni». E quando le arriva una telefonata da Guanda e le dicono che Luis Sepúlveda vuole conoscerla, lei resta sorpresa. «Non mi era mai successo che un autore volesse incontrarmi». Immaginiamo una ragazza che viaggia in treno da Lucca a Milano, anche un po’ spaventata: «Il mio spagnolo gli sembrerà abbastanza elegante? Conoscerò gli autori di cui mi parlerà? Ero in ansia come per un esame», racconta: «Pensavo che mi avesse convocata per capire se ero la persona giusta o no. Il traduttore deve intervenire nella carne del testo: non è sicuro che lo scrittore condivida le sue scelte».

Appena entra in albergo, non c’è nessuno della casa editrice ad aspettarla. Si trova semplicemente Sepúlveda davanti, che sbuca dall’ascensore. E qui arriva la seconda sorpresa: Sepúlveda l’abbraccia. «È famoso per questi abbracci da orso, non dico che mi sollevò da terra, ma quasi. Era la prima volta che uno sconosciuto mi abbracciava con tanto trasporto. “Ti voglio ringraziare perché sei la mia voce italiana”, mi ha detto. Per me sei una compañera de camino». Saranno davvero compañeros, da allora. Ilide va a casa di Lucho - così lo chiamano gli amici - nel Nord delle Asturie, a Gijón («È bravissimo a cucinare, in particolare l’asado»), Lucho va a trovarla in toscana («è capace di mangiare pasta al ragù per primo e per secondo»), viaggiano insieme, parlano di tutto. «Un traduttore può essere molto solo», dice Ilide, «ma con lui non è stato così. È un uomo generoso, a suo agio ovunque. È se stesso con tutti».

Un altro rapporto intenso è quello fra Edna O’Brien e Giovanna Granato. «È come quando ti innamori», dice la sua traduttrice per Einaudi. Il correlativo oggettivo di questo legame è una borsetta da sera di raso nero che Edna compra a Milano per Giovanna, un regalo molto femminile, complice, di grande eleganza.

Si conoscono a Dublino. Quando Giovanna incontra Edna, venuta apposta per lei, ha già preso un tè con sua sorella e con suo nipote a Tuamgraney, il paese d’origine. Era andata lì per vedere casa sua. «Ci siamo volute bene subito», dice. «Lei è di una gentilezza esasperante», racconta, «eppure senti il leopardo che ha dentro, tira certe zampate. La guardavo con un occhio deformato dal mio lavoro, come un entomologo: cercavo di capire se la sua voce assomigliava alla sua scrittura». Edna trova bella la camicia di Giovanna. Un attimo dopo discutono di Joyce e di Beckett. Poi la conversazione si fa più calda, più umana («quando tocchi le corde intime») e capiscono che diventeranno amiche. «È una persona molto sincera, anche su stessa. Una donna che ha una grande forza - senti il felino - ma anche di un’estrema fragilità. Ha avuto una vita difficile, ha dovuto affrontare il rifiuto di sua madre e del suo paese. È curiosa nei confronti degli altri: voleva sapere di me, della mia vita. È meravigliosa. Io prendo energia da lei».

Marisa Caramella, che ha avuto rapporti stretti con molti autori, soprattutto come editore, ricorda ancora l’emozione che ha provato quando ha incontrato Patricia Highsmith, di cui ha tradotto tutta l’opera (ora in corso di pubblicazione per La nave di Teseo). «È stato il punto più alto della mia carriera per la corrispondenza mentale e intellettuale», dice. Patricia Highsmith non era certo un tipo amichevole. «Quando firmava le copie stava sempre in silenzio. I giornalisti non le piacevano, ma qualcosa doveva pur dire, ogni tanto. Non era timida, era scontrosa, misantropa. Comunque, se proprio doveva parlare, preferiva farlo con le donne».

Marisa si presenta a casa sua in Canton Ticino negli anni Novanta, una casa post-hippy, circondata da un giardino. Sul tavolo, il caffè, una bottiglia di vino e un gatto. Patricia ha addosso un maglione, dei pantaloni, delle scarpe comode. «È stata gentilissima con me, sapendo che avevo tradotto tutta quella roba. Però capivi che non gliene fregava niente. Non era una che aveva voglia di socializzare, era una solitaria». Ma chi non avrebbe desiderato trovarsi di fronte a una delle più grandi scrittrici del Novecento, pazienza se poco loquace.

Ha fama di essere una persona difficile anche Antonia Byatt che però ha dedicato vari romanzi ai suoi traduttori e, quando ha ricevuto la laurea Honoris Causa dall’Università di Leiden, ha chiesto di organizzare un seminario internazionale con tutti i suoi traduttori. «Certamente si irrigidisce ma è una difesa dalla banalità che io condivido», spiega Anna Nadotti che la traduce per Einaudi: «Ama parlare delle cose seriamente». Insieme vanno in giro per musei. «È bellissimo il modo in cui lei guarda. Ha uno sguardo narrativo. Vede una cosa, te ne parla, ed è già racconto», dice. «È una donna colta, erudita, un’osservatrice impressionante. Non sopporta le superficialità, vuole sempre andare a fondo».

Diversi ancora sono i rapporti di Bruno Arpaia con gli autori che traduce: è più che altro amicizia fra scrittori, quasi mai lui fa domande sul testo. Con Javier Cercas l’amicizia nasce nel 2001, quando pubblica “Soldati di Salamina”. Nello stesso anno Arpaia pubblica “L’angelo della storia”, sempre per Guanda. «Era come se ci avessero assegnato lo stesso compito e ognuno lo avesse svolto con le sue caratteristiche», racconta. «Oltre a essere uno stupendo scrittore, Javier mi piace sul piano umano. Non sempre siamo d’accordo. Quando ci vediamo, discutiamo molto. Cosa abbiamo in comune? Siamo due persone che tentano di non accontentarsi della versione più scontata dei fatti, abbiamo un atteggiamento dubbioso sul mondo, cauto e non urlato. Anche su questioni brucianti come la Catalogna, Javier dice cose che tentano di mantenere il buon senso e andare oltre gli schemi, sempre invitando alla riflessione complessa. Non ci piace questa tendenza comune a semplificare, a ridurre».

Molto stretto è anche il rapporto con Arturo Pérez-Reverte che Arpaia traduce per Rizzoli: «Ammiro Arturo perché dice sempre quello che pensa con molta libertà e senza peli sulla lingua. In questo mondo che si basa sulle apparenze, è raro. Molti non lo amano per questo motivo. Ha delle diffidenze ma, quando superi le sue trincee, è generoso, amabile. È un uomo che ha veramente vissuto, ha fatto il corrispondente di guerra sul serio, non chiuso negli alberghi. E poi ha una cultura enorme, è un vero hidalgo».

Solleva un problema diverso Elena Kostioukovitch, traduttrice storica in russo di Umberto Eco. «C’erano almeno cinque traduttori storici che con Eco avevano un rapporto stretto, non ero la sola. Ma un bravo traduttore non deve far diventare il suo autore troppo umano. Ne va della sua professionalità. Ogni scrittore, anche quello con cui magari hai un legame affettivo, va trattato come un autore morto. Più diventavo amica di Umberto, più mi vergognavo a fargli delle domande». L’altro rischio, da cui vuole mettere in guardia, è l’identificazione eccessiva.

Racconta che una volta, a San Pietroburgo, la folla era così enorme che si era presentata la polizia a cavallo, e Umberto Eco era svenuto. Appena si era ripreso, aveva chiesto a Elena di affrontare le domande del pubblico al posto suo. «Perché sapevo bene cosa avrebbe risposto. Un traduttore a volte conosce così a fondo il suo autore, la sua biografia, il suo pensiero politico, il background culturale, da sapere addirittura cosa succederà nella pagina successiva, prima di voltarla. Devi avere i suoi ingredienti nella testa per cucinare la stessa minestra in un’altra lingua. Ma non devi commettere l’errore di crederti lui. Umberto era una persona di enorme fascino, a cui sono grata e a cui ho voluto davvero bene. Abbiamo viaggiato tanto insieme, lui amava appartarsi, era molto concentrato su se stesso. Però, appena andavamo in scena diventavamo come due acrobati al circo: uno va in aria e l’altro lo deve ricevere quando atterra. E se mi vedeva in difficoltà, mi suggeriva la risposta sussurrando».