In mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma "Vera fotografia": l'omaggio a un maestro che ha testimoniato con le sue immagini molti capitoli del Novecento e i primi di questo nuovo millennio. L'intervento della curatrice
E’ nato a Santa Margherita Ligure nel 1930; dal 1965 vive a Milano ma per Gianni Berengo Gardin la sua città è Venezia. Lì ancora adolescente si trasferì con tutta la sua famiglia nel dopoguerra. Lì c’era il negozio delle zie con l’insegna Berengo Gardin in mosaico oro-blu e perle di Murano in vetrina. Lì è la sua prima formazione fotografica nel circolo “La Gondola” presieduto da Paolo Monti.
Ed è dunque con Venezia che comincia e con Venezia che si conclude, il percorso di questa mostra: omaggio a un maestro che ha testimoniato con le sue immagini molti capitoli della storia del Novecento e i primi di questo nuovo millennio.
Il titolo scelto “Vera fotografia” riprende quel timbro verde che autentica il retro di ogni sua stampa fotografica. Niente finzioni, niente set, niente effetti speciali, solamente la verità di un’immagine che per un attimo si rivela al suo sguardo. Attimo dopo attimo però, vista nel suo insieme, l’opera di Berengo Gardin è un grande affresco della storia d’Italia.
La storia del lavoro, del proletariato e di un paese ancora contadino. Ma anche la storia dell’industrializzazione, dei cambiamenti veloci e bruschi, delle proteste, delle rivoluzioni e delle invenzioni. E ancora: la storia dei conflitti, delle lotte e degli emarginati per i quali Berengo Gardin affrontò l’orrore dei manicomi e la segregazione di malati di mente difesi da uno psichiatra coraggioso come fu Franco Basaglia o recentemente si intrufolò nei campi nomadi con macchina al collo. Quella di sempre: «Leica con grandangolo perché riesce a raccontare di più e a catturare la persona e insieme il suo ambiente».
Passo dopo passo, sala dopo sala, la storia del nostro paese scorre come un film. La Venezia anni Sessanta e Settanta che apre la mostra è ad esempio una città magica non ancora stravolta dal turismo, ma invasa da riflessi e vibrazioni di luce che avvolgono una comunità semplice nei suoi riti eterni: matrimoni, comunioni, passeggiate e abbracci di fidanzati. E’ lo sguardo che accompagnerà sempre Berengo Gardin, una ricerca di verità che fonde uomo e ambiente, gesti e spazi seguendo due grandi lezioni : da una parte la fotografia umanista di scuola francese (Cartier-Bresson, Doisneau, Boubat, Willy Ronis che conoscerà durante il soggiorno a Parigi dal 1954 al 1956) dall’altra la fotografia sociale americana della Farm Security Administration.
E’ su queste basi che costruisce non solo un linguaggio personale ma anche un lavoro fatto di collaborazioni con scrittori, giornalisti, colleghi fotografi e grandi imprenditori, Adriano Olivetti tra i primi. E proprio Olivetti negli anni Sessanta apre a Berengo Gardin le porte delle fabbriche e lo immette in un mondo del lavoro per lui ancora sconosciuto:«Nelle foto industriali non fotografo mai il prodotto finito ma le linee di montaggio e le storie di quegli operai, la vita degli uomini, il loro territorio», racconta.
Con questo sguardo teso sugli uomini, sulla loro fatica, sulla loro realtà sociale Berengo Gardin pubblica nel corso della sua vita duecentocinquanta libri e fra tutti, uno davvero epocale: “Morire di Classe” del 1969 firmato insieme a Franco Basaglia e Carla Cerati. Asciutto reportage sull’orrore dei manicomi italiani che riesce a evitare la pornografia del dolore perché come spiega «non ho mai fotografato la malattia ma le condizioni di violenza che negavano dignità al malato». Così è in tutto il suo lavoro dove non c’è mai caduta nella facile compassione,nell’effetto drammatico, nell’eccesso. Né quando entra in un campo di zingari per registrare l’esuberanza e l’energia di una comunità ai margini, né quando indaga volti borghesi o popolari raccontando nel suo rigoroso bianco e nero stili di vita, ruoli sociali, discriminazioni sessuali, obblighi di classe.
Ed è un rigore cartesiano che insieme all’impegno civile non lo abbandona mai, neanche se registra con il peso nel cuore, lo scempio delle Grandi Navi che violentano la sua città: «Quei giganti mi ossessionavano. Mi svegliavo intorno alle quattro e mezzo del mattino per trovarmi all’alba nei punti strategici e catturare i mostri mentre depredano visivamente Venezia. Perché è evidente a chiunque il pericolo che corrono San Giorgio, Palazzo Ducale o la Punta della Dogana al passaggio di questi colossi. Ma ero turbato soprattutto dall’inquinamento visivo. Vedere Venezia distrutta nelle proporzioni e trasformata in un giocattolo, simile a un suo clone di cartapesta come a Las Vegas». E’ la dignità di una città che Berengo Gardin difende come ha sempre difeso la dignità di un uomo, la dignità di un paese, la dignità del lavoro e infine la dignità di un mestiere che vuole raccontarci il mondo con delle buone e vere fotografie.