Il nuovo gioco permette di impersonare un afroamericano e condurlo nella sua scalata ai vertici della malavita statunitense alla fine degli anni 60. Ma propone anche una riflessione sulle condizioni di vita delle minoranze. Tema di stretta attualità nel paese che ha eletto Donald Trump

"Non importa quali sono le tue origini, se hai la pelle scura per tutti qui sarai sempre e solo un negro". Con queste parole si apre Mafia 3, videogame appena uscito, che riprende la saga incentrata su Cosa Nostra, con un nuovo capitolo dalle premesse inattese: il protagonista è Lincoln Clay, un orfano di colore che dopo aver tentato di trovare una famiglia nell’esercito, ed essere partito per il Vietnam, torna a casa e si unisce al sottobosco della criminalità afroamericana in lotta con quella italiana.

Non è cosa da poco visto che nei videogiochi, come al cinema d’altronde, se si eccettuano rare eccezioni la presenza di personaggi afroamericani è storicamente limitata ai comprimari. Soprattutto perché il gioco fin dal messaggio che precede i titoli di testa, mostra come la software house Hangar 13 abbia voluto affrontare apertamente la questione razziale: "Mafia 3 tenta di dipingere una versione realistica degli Stati Uniti del sud nel 1968, incluso il razzismo", si legge nell’incipit, "e anche se il linguaggio e i comportamenti offensivi di alcuni personaggi nel gioco sono ripugnanti, era vitale includerli per raccontare la storia di Lincoln Clay". Che all’inizio dell’avventura subisce ogni tipo di vessazione e, dopo l’assassinio del suo padrino, trasformerà la rabbia in una escalation di violenza che sembra valicare i confini della semplice vendetta personale.

"L’industria dei videogame è maturata", ci spiega il direttore creativo di Mafia 3 Haden Blackman, quando lo incontriamo a New Orleans, dove il gioco è ambientato "e ciò significa trovare una maggiore diversità nelle storie e nei personaggi. Saremmo felici se vivendo nei panni di Lincoln i giocatori riflettessero su quelle discriminazioni che la maggior parte di noi non è costretto ad affrontare e che hanno un fortissimo impatto ancora oggi".

Naturalmente giocando non si può non pensare alle tensioni razziali che scuotono gli Stati Uniti, cavalcate da Donald Trump e rinfocolate dai ripetuti omicidi di afroamericani da parte della polizia: quello di Keith Lamont Scott, lo scorso 20 settembre a Charlotte, è solo l’ultimo di una lunga serie che, secondo il sito mappingpoliceviolence.org, ha già contato almeno 234 neri nel primi 10 mesi di quest’anno su circa 800 omicidi (nel 2015 sono stati 346 su 1125), il 30% dei quali erano disarmati.

"Prima che venisse ucciso Alton Sterling lo scorso luglio non ho mai pensato alla brutalità nei nostri confronti, ma ora quando giro in auto da sola e vedo nello specchietto un’auto della polizia ho veramente paura", ci racconta Adina, una donna di colore che fa la guida nella Whitney Plantation, in cui si può rivivere la storia della schiavitù in Louisiana. Il museo si trova a metà strada tra New Orleans e Baton Rouge, dove l’omicidio di Sterling ha scatenato una vibrante protesta della comunità nera, culminata con l’assassinio di tre poliziotti e il ferimento di altrettanti da parte di un giovane afroamericano arrabbiato e fuori controllo. Proprio come Lincoln Clay.

Certo, anche se all’inizio di Mafia 3 un poliziotto si lamenta perché "un bianco timorato di Dio ha difficoltà a tirare a campare, mentre un negro come Lincoln riesce a trovare subito lavoro", gli sbirri nella vicenda fittizia sono solo comprimari in una lotta di potere tra organizzazioni criminali. E tuttavia anche se il gioco non mira a ritornare alle origini del razzismo, in una missione appare un gruppo di uomini del Ku Klux Klan, a ricordare che la questione della supremazia bianca è ancora una ferita con cui l’America oggi deve ancora fare i conti. Soprattutto negli Stati del sud.

Nella Whitney Plantation si possono vedere le baracche in cui gli schiavi dormivano su assi di legno dopo una giornata massacrante trascorsa a raccogliere e lavorare la canna da zucchero, e le gabbie di ferro in cui venivano rinchiusi anche per giorni prima di essere venduti all’asta, per pochi spiccioli se malfermi e non educati a un mestiere, in luoghi come il City Exchange di New Orleans, che oggi è un albergo di lusso. Il museo è nato nel dicembre 2014 per contrastare l’immagine fasulla che di posti come questo si è diffusa a New Orleans e dintorni, dove le piantagioni, con le loro luminose ed eleganti dimore, vengono ormai affittate per eventi e matrimoni, o dove della Storia si dà una versione censurata, come nella visitatissima Oak Alley, in cui il focus del tour è la vicenda della famiglia di schiavisti che l’abitava, mentre i neri che li servivano e lavoravano sono un accessorio, oggi come allora.

"Dopo quel che è successo a Baton Rouge, pochi sono stati i bianchi che si sono uniti alle proteste della nostra gente", mi spiega Joe, un nero grande e grosso che incontro in uno dei tanti locali di Bourbon Street, "perché qui la gente rimane fondamentalmente razzista". D’altra parte la popolazione non dimentica come, nei giorni seguenti la devastazione dell’uragano Katrina nell’agosto del 2005, la polizia della città di Gretna, a maggioranza bianca, bloccò il ponte che avrebbe consentito agli sfollati di New Orleans, soprattutto neri, di sfuggire all’inondazione attraversando il Mississippi verso sud. Quest’anno finora è andata abbastanza bene a chi vive in città, visto che gli omicidi commessi da chi indossa la divisa sono calati, dopo un 2015 in cui New Orleans era balzata al sesto posto nel rapporto tra numero di abitanti e civili uccisi, brutta gatta da pelare per il nuovo capo della polizia, l’afroamericano Michael S. Harrison, eletto nel 2014 a comandare un dipartimento in cui il 57% degli agenti è nero. "Eppure non c’è differenza", spiega ancora Adina "perché i poliziotti sono brutali anche quando hanno la pelle del tuo stesso colore".

La violenza della società si riflette naturalmente nei videogiochi, ma anziché lasciare l’utente in balia di una brutalità fine a se stessa, come accade in molti titoli destinati come Mafia 3 a un pubblico adulto, stavolta le azioni del protagonista si trasformano in una sorta di rivendicazione di una minoranza oppressa, come se Lincoln fosse l’erede dello schiavo Django liberato sul grande schermo da Quentin Tarantino.

"Non volevamo realizzare un videogame sulla razza", spiega lo sceneggiatore del gioco Bill Harms, "ma creare una storia di vendetta. Certo abbiamo scelto il 1968 perché è stato un anno di fondamentale transizione e caos nella Storia degli Stati Uniti, per le proteste contro la guerra in Vietnam, il movimento per i diritti civili e l’assassinio di Martin Luther King". Così nel gioco, mentre si gestiscono i racket, e si combattono i mafiosi italoamericani, cercando nuove alleanze e tradendo vecchi amici, come in un film di Martin Scorsese, si è costantemente immersi nel contesto storico dell’epoca che, come spiega Harms, "rende l’esperienza più realistica e fa capire come il protagonista si rapporta agli altri e come questi vedono lui".

Per rendere fedele la ricostruzione d’epoca, oltre a ricreare una New Orleans di fantasia piuttosto fedele a quella vera, Harms e il suo team si sono documentati soprattutto sulla questione razziale, per capire cosa voleva dire essere neri a quel tempo: "Ci è stata molto utile la visione di Take This Hammer, documentario in cui l’attivista James Baldwin girava per San Francisco nel 1963, chiedendo agli afroamericani di raccontare le difficoltà della vita di tutti i giorni, ma anche quella di Spies of Mississippi, che descrive i tentativi da parte del Governo di infiltrarsi nei movimenti per i diritti civili allo scopo di sabotarli. Mi ha scioccato leggere il test di alfabetizzazione della Louisiana usato negli Anni Sessanta, studiato in modo che i neri non potessero superarlo e gli fosse così negato il diritto di voto".

Tutte le ore spese a fare ricerche si sono tradotte in un gioco in cui chi impugna il joypad ha la possibilità di rivivere e capire quel momento storico, ad esempio attraverso i radiogiornali che trasmettono notizie di quell’anno, mediante la lettura delle interviste nei numeri di Playboy disseminati in città, e attraverso i dialoghi, non solo dei personaggi principali, "come nel caso della discussione", spiega Harms "che riguarda l’estradizione di James Earl Ray, ritenuto l’assassino del dottor King". "Abbiamo cercato di creare un mondo e personaggi affascinanti", conclude Blackman "ma saremmo contenti se chi gioca imparasse qualcosa su un periodo storico in cui si combatterono molte battaglie di civiltà". Per la maggior parte tra esse la lotta non sembra ancora finita.