«Nessun salvataggio a spese dello Stato», diceva il governo di Berna. Ma dopo anni di affari ad alto rischio, tra controlli inefficaci e politici distratti, la banca era diventata troppo grande per fallire

«La Svizzera dispone di ampi strumenti regolatori volti a prevenire il salvataggio da parte dello Stato di una banca di rilevanza sistemica in situazioni di emergenza». A gennaio del 2021, il governo di Berna liquidò così l’interpellanza di un parlamentare dei Verdi, Denis de la Reussille. Parole al vento. Credit Suisse eviterà il fallimento grazie all’intervento di Ubs e le nozze obbligate tra i due colossi con sede a Zurigo saranno finanziate con il denaro dei contribuenti. Un falò gigantesco, fino a 200 miliardi di franchi (circa 200 miliardi di euro) in garanzie pubbliche, con l’obiettivo dichiarato di evitare guai peggiori, compresa una crisi bancaria globale. Adesso è chiaro: gli «strumenti regolatori» che avrebbero dovuto «prevenire» l’intervento dello Stato, evidentemente esistevano soltanto sulla carta. Il paracadute non c’era. E se c’era, non si è aperto. Le vicende di questi giorni, in un rincorrersi affannoso di dichiarazioni pubbliche, alti e bassi di Borsa e rumorose proteste di azionisti grandi e piccoli in giro per il mondo, raccontano di un errore di sistema che coinvolge manager strapagati e organi di vigilanza.

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È un flop imbarazzante per un Paese come la Svizzera, che da sempre ama dare di sé un’immagine di stabilità ed efficienza. Per la seconda volta in meno di 15 anni la Confederazione fondata sulle banche torna al centro di una tempesta globale. Nell’autunno del 2008, poche settimane dopo il crack dell’americana Lehman Brothers, il governo elvetico salvò Ubs dal fallimento comprando il 9 per cento dell’istituto e finanziando un prestito d’emergenza da oltre 60 miliardi di franchi, pari a circa 40 miliardi di euro al cambio dell’epoca. Anche allora a pagare il conto furono contribuenti.

In teoria, una serie di norme introdotte dopo la crisi del 2008 avrebbero dovuto evitare nuovi crolli, o quantomeno creare le condizioni perché le autorità potessero disinnescare potenziali crack prima che facessero danni. Alla fine del 2019, Ubs e Credit Suisse avevano presentato i rispettivi piani di recovery, cioè l’insieme delle misure di emergenza predisposte per evitare l’intervento dello Stato in caso di crisi. Subito dopo, a febbraio del 2020, era puntualmente arrivato il via libera della Finma, l’organo federale chiamato a vigilare sui mercati finanziari.

Eppure, «la tempesta a cui stiamo assistendo non era affatto imprevedibile», osserva Sergio Rossi, professore di Economia all’università di Friburgo. Dopo il 2008, Ubs ha cambiato strategia e invece «Credit Suisse - riassume Rossi - ha continuato a puntare sulle attività di investment banking più rischiose». Tanto rischiose che a un certo punto è diventato impossibile invertire la rotta. L’istituto fondato nel 1856 dal politico e imprenditore Alfred Escher, celebrato da un gigantesco monumento in bronzo nel centro di Zurigo, rischiava il collasso per effetto della fuga dei clienti: miliardi di euro che ogni giorno prendevano il volo dalle casse del Credit Suisse in cerca di approdi considerati più sicuri. Alla fine, si è rivelato inutile anche il piano lacrime e sangue, con tagli di personale e vendita di attività, annunciato nell’autunno scorso dal presidente Axel Lehman con l’amministratore delegato Ulrich Koerner, due manager che, ironia della sorte, erano approdati da pochi mesi al Credit Suisse dopo aver partecipato al rilancio di Ubs a partire dal 2009. Mentre i 4 miliardi di franchi incassati nel novembre scorso grazie a un aumento di capitale sono bastati solo a puntellare per qualche mese un edificio ormai prossimo al crollo.

«L’intervento della Confederazione era inevitabile. Non c’erano alternative concrete e aspettare ancora avrebbe comportato una crescita incontrollata dei costi a carico della collettività», sostiene Antonio Mele, ordinario di finanza all’Università della Svizzera Italiana di Lugano. «Non voglio attribuire le responsabilità di quanto accaduto alle autorità di vigilanza - dice Mele - perché i controlli sono stati fatti secondo le regole in vigore. Sono piuttosto queste ultime che andrebbero riviste e rese maggiormente idonee a controllare per tempo e impedire sviluppi di questo genere».

Intanto, però, a Berna la politica si divide sui tempi e modi del salvataggio pubblico. Il sistema di governo elvetico, unico al mondo, fa in modo che tutti i principali partiti, dalla destra populista alla sinistra moderata si spartiscano i sette posti dell’esecutivo. Tra loro viene scelto il presidente della Confederazione, un incarico annuale con funzioni di semplice rappresentanza che per il 2023 è andato al socialista Alain Berset. È toccato a lui annunciare l’intervento dello Stato per evitare il crack del Credit Suisse. Per effetto della fusione con Ubs nascerà un gruppo attività in bilancio per oltre 1.500 miliardi di franchi. Una somma gigantesca, pari a quasi il doppio del Pil svizzero, che spaventa anche una classe politica abituata da sempre a far coincidere il bene del paese con quello delle sue banche.

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In ottobre sono in calendario le elezioni per rinnovare i due rami del Parlamento e i partiti fanno a gara per smarcarsi da un affare troppo grande per non destare sospetti. La sinistra, che comprende anche i Verdi, se la prende con i probabili tagli di personale nel nuovo gruppo. Le due banche sommate insieme potranno contare su oltre 120 mila dipendenti nel mondo, ma la riorganizzazione che prenderà il via nei prossimi mesi dovrà eliminare gli innumerevoli doppioni tra strutture molto simili, soprattutto nelle sedi centrali e nella rete delle filiali in Svizzera, dove secondo i calcoli degli analisti, potrebbero perdere il posto circa 10 mila persone su 37 mila. E così, i socialisti chiedono una sessione straordinaria del Parlamento per votare la creazione di una commissione d’inchiesta sulla gestione recente del Credit Suisse.

Da destra, i populisti dell’Udc se la prendono con i compensi milionari dei manager. Nel 2022, l’anno in cui la crisi si è fatta più grave, il consiglio di amministrazione della banca non ha esitato a distribuire ricchi premi a centinaia di dirigenti per evitare che abbandonassero la barca nel pieno della tempesta. Un rapporto appena pubblicato segnala che sono stati assegnati bonus per 363 milioni di franchi a 1.100 dipendenti. Non è ancora chiaro se parte di questi compensi verranno restituiti oppure non liquidati, nel caso dovessero essere ancora incassati.

«Non salveremo gli stipendi dei banchieri», promettono adesso i politici per rassicurare l’elettorato. Il salvataggio del Credit Suisse, senza precedenti per dimensioni, cade in una fase di particolare instabilità economica. L’anno scorso, per evitare l’eccessiva rivalutazione della valuta nazionale, la Banca nazionale svizzera ha fatto incetta di titoli stranieri che poi si sono svalutati per effetto del rialzo dei tassi. Le perdite nel bilancio dell’istituto di emissione hanno così raggiunto la cifra record di 132,5 miliardi di franchi, prosciugando il fiume di dividendi destinati al governo centrale e ai cantoni. Adesso la stessa banca centrale dovrà impegnare fino a 200 miliardi per garantire il buon esito della fusione tra i due maggiori istituti del Paese. Nessun crac in vista, certo, ma questa volta perfino la ricchissima Svizzera pagherà un conto salato per gli errori dei suoi banchieri.