Le case produttrici assicurano l’abbandono dei motori termici entro dieci anni. Ma i costi, anche umani, del mercato di cobalto e litio per le batterie spingono a rivedere gli obiettivi

«Le auto elettriche sono sopravvalutate, se tutti ne guidassimo una il sistema collasserebbe». Era fine 2020 quando Akio Toyoda, ceo di Toyota e nipote di Kiichirō, fondatore della casa giapponese, pronunciò queste parole, sostenendo che l’elettrico fosse un business ancora immaturo e socialmente non sostenibile. A distanza di più di due anni le sue idee non sono cambiate. «I veicoli elettrici impiegheranno più tempo per diventare mainstream rispetto a quanto i media vorrebbero farci credere», ha ribadito recentemente. Per il suo scetticismo sulla mobilità elettrica, Akio si è dimesso a inizio di quest’anno da ceo (resterà nel ruolo di presidente del cda). Al suo posto Koji Sato, finora impegnato con il brand Lexus, che ha già annunciato un cambio di passo del gruppo giapponese nello sviluppo di nuovi veicoli full electric, abbracciando con convinzione l’euforia generale attorno alla rivoluzione verde del mondo automotive. Molte case automobilistiche si stanno infatti adoperando per rendere la loro gamma completamente elettrica in una decina di anni.

 

Al di là dei toni trionfali – supportati dal nobile intento di rendere il settore meno inquinante – la realtà sembra essere più vicina alle parole di Akio: la transizione all’elettrico va a rilento ed è una roba ancora solo per ricchi. Secondo il recente report eReadiness di PwC Strategy&, in Europa il principale deterrente all’acquisto è il costo delle auto e lo stato delle infrastrutture di ricarica pubblica. Lo dimostra la geografia delle immatricolazioni - concentrate in larga parte nelle regioni in cui la popolazione ha un potere d’acquisto più alto - e lo conferma il fatto che il reddito medio di chi intende comprare un’elettrica entro due anni è superiore di oltre il 50% rispetto a quello di chi non è interessato. A pesare sul costo finale soprattutto le materie prime di cui sono composte le batterie, come litio (considerato il nuovo petrolio) e cobalto, che negli ultimi anni hanno visto una crescita dei prezzi, che potrebbero ulteriormente schizzare all’insù nei prossimi anni. Basti pensare ai piani di Tesla che ha da poco annunciato la costruzione di una gigafactory a Monterey, in Messico, con l’obiettivo di aumentare la produzione mondiale fino a 20 milioni di veicoli elettrici all’anno entro il 2030.

 

«In Europa, ci aspettiamo una crescita della domanda di litio e cobalto» spiega Daniela Corsini, economista di Intesa Sanpaolo. «Soprattutto c’è molta preoccupazione intorno all’approvvigionamento del litio, materiale insostituibile per il mondo automotive e dell’elettronica di consumo, prodotto in pochi Paesi e spesso in condizioni ambientali molto fragili. Pensiamo al Salar de Atacama, in Cile, una delle più grandi riserve di litio al mondo, dove però c’è grande scarsità di acqua. Per questo, ci aspettiamo che le quotazioni del litio possano mantenersi attorno ad una media di 72 dollari quest’anno e riprendere un trend rialzista negli gli anni successivi».

 

Se la mobilità elettrica si espanderà sempre di più nei prossimi anni, il settore, oltre ai costi troppo alti, dovrà confrontarsi anche con altre più drammatiche questioni, che riguardano il primo anello della catena di approvvigionamento. L’estrazione del cobalto, in particolare, è collegata anche a gravi violazioni dei diritti umani, tra cui sfruttamento del lavoro, anche minorile, nelle miniere in Congo, che fornisce oltre il 70% del cobalto utilizzato nelle batterie ricaricabili in tutto il mondo. Il tema non è nuovo: in passato Amnesty International e il quotidiano britannico The Guardian hanno già denunciato le condizioni disumane di chi lavora in queste miniere. Il dipartimento americano del Lavoro stima che in queste miniere siano coinvolti 25mila bambini.

 

Qualcuno sta già provando a rendere l’intera filiera più rispettosa dei diritti umani. Entro il 2026 potrebbe diventare obbligatorio in Unione europea il battery passport, una sorta di passaporto digitale che dovrebbe contenere tutte le informazioni relative alla batteria dell’auto: la costruzione, la durata, l’origine di materiali e componenti e anche la garanzia che non sia stata fatta usando il lavoro minorile. A presentare il progetto, durante il World economic forum di Davos a gennaio, la Global battery alliance (Gba), una piattaforma di collaborazione pubblico-privata fondata nel 2017 per aiutare a stabilire una catena sostenibile di batterie entro il 2030. Tra i membri figurano Audi, Volkswagen, Basf, Catl, Eurasian resources group, Glencore, Lg energy solution, Umicore e Tesla, ma anche organizzazioni non governative e internazionali tra cui IndustriALL global union, Pact, Transport & environment, Unep e Unicef, senza contare il supporto di istituzioni governative come il ministero tedesco dell’Economia e il dipartimento governativo Natural resources Canada.

 

Grazie al Battery passport, scrive la stessa Gba, la cosiddetta supply chain delle batterie potrà diventare più trasparente. Audi e Tesla hanno già anticipato il loro battery passport. Prendendo in esame il passaporto della società di Elon Musk, si scopre, per esempio, che il cobalto utilizzato arriva dalla Cina (principale raffinatore di questi materiali). E che l’estrazione è stata effettuata interamente dalla miniera della Kamoto Copper company che ha sede nella Repubblica Democratica del Congo ed è gestita dal colosso delle materie prime Glencore. Si tratta però solo dell’1% di tutti i materiali che compongono la batteria. Per quanto riguarda Audi, invece, la tracciabilità ha coperto anche il litio raggiungendo fino al 13,6% dei materiali per una delle due batterie prese in esame. Per il momento però il progetto è ancora in fase preliminare e i passaporti sono documenti ancora incompleti.

 

E, inoltre, secondo uno studio recente dal titolo, “Cobalt mining in the democratic Republic of the Congo: addressing root causes of human rights abuses”, condotto dalla New York university e dal Centro dedicato ai diritti umani dell’università di Ginevra, sarebbe praticamente impossibile separare il cobalto industriale da quello estratto manualmente. Il cobalto estratto dalle cosiddette Asm - dall’inglese artisanal small-scale mining, che indica quel processo di estrazione manuale effettuato da individui che scavano per trovare il cobalto alla periferia dei grandi siti industriali - rappresenta dal 15% al 30% della produzione totale nella Repubblica democratica del Congo (il 10% a livello globale), rendendolo parte integrante della filiera. Tesla e altre società, insomma, non acquistano direttamente cobalto dalle piccole miniere, dove spesso vengono impiegati bambini: la loro fonte principale sono le grandi società industriali, come quelle gestite da Glencore. Ma in questo processo diventa impossibile tracciare i piccoli intermediari che vendono ai produttori più grandi il cobalto estratto nelle Asm.

 

Gli autori del report, per superare l’impasse, invitano le case automobilistiche a legittimare il mercato degli Asm come parte integrante dell’estrazione di cobalto, unico modo per compiere progressi reali nella limitazione del lavoro minorile e nel miglioramento della sicurezza in queste miniere. Le aziende della catena di fornitura delle batterie, il governo del Congo, insieme ad altri governi e altre parti interessate, dovrebbero quindi sviluppare insieme standard comuni sulla sicurezza nelle miniere e sul lavoro minorile.

 

Un’interessante riflessione, infine, arriva dalle parole di Gill Pratt, direttore scientifico di Toyota, che, durante il World economic forum, ha suggerito un cammino verso l’elettrico un po’ in controtendenza rispetto al mercato. Secondo una ricerca della Benchmark minerals intelligence, dice, la domanda di litio, cobalto e nichel da qui al 2040 supererà l’offerta di un buon 30%. E i veicoli alimentati esclusivamente a batteria hanno bisogno di parecchi di questi materiali, mentre i veicoli ibridi di tipo plug-in ne richiedono molti meno. Ecco che quindi l’ibrido diventa la soluzione: «Toyota non vuole proporre solo tecnologie ibride», spiega Pratt. «Ma considerando i problemi sul litio, sulle batterie e sull’infrastruttura, la diversificazione è l’unica via che riteniamo adatta per affrontare questa fase di transizione verso le zero emissioni». E ancora: «Pensiamo che in alcune parti del mondo dove l’infrastruttura di ricarica non è così ecosostenibile come qui alcune di queste opzioni potrebbero risultare migliori». E fa niente se proprio in questo periodo la casa giapponese sta spingendo le vendite della sua nuova Prius plug-in hybrid.