Il 10 agosto 1944, a Milano, quindici uomini furono fucilati da una legione al comando dei tedeschi e lasciati a terra per l’intera giornata. Avevano diverse idee politiche, ma erano uniti dall’opposizione al regime. L’eccidio, che doveva fungere da monito, rafforzò la Resistenza

A Milano, in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944 alle 5 e 30 del mattino quindici uomini furono fucilati in modo scomposto da un plotone della Legione fascista autonoma “Ettore Muti”. I corpi rimasero accatastati al sole d’agosto, sul piazzale, contro una palizzata di legno fino alle otto della sera, oltraggiati ripetutamente dalle guardie della Gnr (Guardia Nazionale Repubblicana), tra il silenzioso sgomento dei passanti. L’ordine della fucilazione provenne dai comandi tedeschi, che occupavano la città ormai da quasi un anno. I quindici fucilati furono tutti prelevati dal carcere di San Vittore, dove erano detenuti perché antifascisti. Nessuno di loro subì alcun processo.

Due libri recenti ricostruiscono la vicenda: il mio – “Piazzale Loreto. Milano, l’eccidio e il «contrappasso»” (Donzelli, 2020) – e quello di Elisabetta Colombo, Anna Modena, Giovanni Scirocco, “Il nostro silenzio avrà una voce. Piazzale Loreto: fatti e memoria” (il Mulino, 2021). L’eccidio ebbe chiaramente la doppia firma nazista e fascista, palesata e ostentata dagli stessi organismi di potere. I fascisti, che ebbero il controllo della piazza per l’intera giornata, presto tolsero il cartello posto tra i morti che rivendicava l’eccidio, per affiggere un proprio manifesto sulla palizzata in legno, avocando a sé con quel gesto l’impresa.

Si voleva spaventare la popolazione, ma si ottenne l’effetto contrario: crebbe il disprezzo per i tedeschi e per il tradimento fascista dell’Italia. E si ampliarono i consensi alla Resistenza, sempre più coesa nella difesa della patria da usurpatori, corrotti e violenti, nel nome di una nuova idea di Europa fondata sui diritti civili fondamentali. I quindici uomini trucidati il 10 agosto 1944 rappresentavano questa Resistenza. Molti scrissero nei loro ultimi messaggi «W l’Italia», celebrando la patria, che difendevano uniti da un ideale comune. Alcuni collaboravano tra loro, tutti lavoravano a un unico progetto.

Erano uomini di età, professioni, estrazioni sociali, ma soprattutto di idee politiche diverse. Il cattolico Vittorio Gasparini fu ucciso insieme con i comunisti Libero Temolo, Giulio Casiraghi, Andrea Esposito e Vitale Vertemati, con l’azionista Umberto Fogagnolo e con i socialisti Eraldo Soncini, Angelo Poletti, Domenico Fiorani e Renzo Del Riccio. Con loro Antonio Bravin, Emidio Mastrodomenico, Giovanni Galimberti, Andrea Ragni e mio nonno, Salvatore Principato, il più anziano del gruppo, che aveva cinquantadue anni. Era socialista turatiano, faceva il maestro elementare, aveva contrastato il fascismo fin dagli inizi, collaborando attivamente prima con i fratelli Rosselli e con Giuseppe Faravelli, poi con Rodolfo Morandi e i gruppi socialisti milanesi.

Il cartello posto tra i corpi subito dopo la fucilazione li stigmatizzava come gappisti, e tali sono rimasti anche negli anni della memoria, che stentò a riconoscere in loro le diverse e complesse anime dell’antifascismo. Si è preferito a lungo farne soltanto un simbolo. Anche per questo si sono studiate poco, e forse non si sono volute studiare, le loro biografie. Oggi che quella storia è stata in parte scritta, anche quella memoria può essere ripensata, ritrovandovi ottant’anni di storia italiana.