Libera scelta
Se il corpo è mio fatemelo gestire. Anche con il bisturi
Consideriamo scontato poter usufruire di arti artificiali, voci sintetiche, pezzi di ricambio dei nostri organi. Ma quando il concetto di innaturale si applica all’estetica salta tutto
La fronte della Gioconda, la bocca dell’Europa dipinta da François Boucher, il naso della Psiche di François Gérard, il mento della Venere di Botticelli, gli occhi della Diana cacciatrice della scuola di Fontainebleau. Negli anni Ottanta, l’artista visuale Orlan utilizzava la chirurgia estetica come performance, sottoponendosi a una serie di interventi per cambiare volto e corpo: mentre i chirurghi, vestiti di tuniche d’argento, le riducevano cosce e caviglie e le rimodellavano ginocchia, labbra, occhi, una telecamera filmava tutto. Più avanti aggiunse al suo viso protesi facciali e corna, deformandosi e tagliandosi e mutando, e conservando i resti organici in reliquiari. «Il mio corpo è la mia opera», dichiarava. Nello stesso periodo, il cipriota Stelarc aggiungeva a se stesso un paio di ali e si impiantava sul braccio un orecchio creato in laboratorio dalle proprie cellule.
Oggi osserviamo le manipolazioni dei corpi degli altri senza traccia dell’antica meraviglia, ma quasi esclusivamente per criticarli. Se consideriamo quasi scontata l’idea di poter usufruire di arti artificiali, voci sintetiche, pezzi di ricambio dei nostri organi, tutto salta quando quello stesso concetto di “innaturale” si applica all’estetica. Il rito collettivo di chi segue Sanremo sui social diventa, quasi sempre, la dissezione della pelle altrui, e indugia sui ritocchi, sulle labbra, sui seni delle altre donne, nella gran parte dei casi schernendole.
Da ultimo, il bersaglio è Madonna, rea di continuare a fare quel che ha sempre fatto: «Il mio corpo è la mia opera», come Orlan. Lo ha fatto con i reggiseni a cono immaginati negli anni Novanta da Gaultier per il tour Blonde ambition, con la trasformazione da nuova Monroe a Evita Peron, e il mondo acclamava quella strategia di travestimento e trasformazione. Ma già negli anni Zero i giornali dedicavano lunghi articoli alle sue mani, prima rugose poi lisce, e il Wall Street Journal spiegò come funziona il lifting alle mani medesime (dal momento che il botulino le paralizzerebbe, si trapianta il grasso, «prelevato da fianchi o addome e iniettato attorno ai polsi e poi guidato nei punti strategici»).
Ora Madonna ha superato i sessant’anni, e dunque gli interventi al viso, che le alzano gli zigomi e le allungano gli occhi e le gonfiano le labbra, vengono giudicati intollerabili, fuori luogo, scandalosi molto più di quanto lo siano stati le sue canzoni, le sue fotografie e i suoi spettacoli. Eppure, notava la bioetica Chiara Lalli, siamo in un mondo che almeno a parole accetta tutti i corpi, con ogni imperfezione possibile, e che anzi espelle la parola fat, grasso, dai libri di Roald Dahl. Ma non accetta che si accolga l’artificio, senza capire che in questo modo ribadisce la vecchia questione: le donne sono il loro il corpo.
Un tempo la modifica del “naturale” era vista persino con benevolenza. Un tempo si favoleggiavano i nomi di Pitanguy e dei maghi del bisturi che firmavano biografie con i nomi delle loro illustrissime pazienti prima di ritirarsi in un’isola brasiliana. Un tempo la chirurgia estetica era esotica e irraggiungibile, tanto da venir usata come espediente per le sceneggiature: nel quarto film di Emmanuelle, per giustificare i raggiunti limiti di età di Sylvia Kristel, si immaginava una fuga in Brasile (appunto), dove l’eroina veniva sottoposta a una non precisata «operazione di chirurgia estetica» che la trasformava in una donna più giovane, l’attrice Mia Nygren. Vergine, peraltro. Oggi viene visto con orrore, e proprio dalle donne che sfogliano le riviste o guardano la televisione e si interrogano vicendevolmente su chi abbia fatto il ritocco e dove, e come. Commentano un seno gommoso, un paio di labbra gonfie, ammiccano e criticano e condannano.
Tutt’altro da quello che, negli anni Ottanta, provava a delineare Donna Haraway nel Manifesto Cyborg, dove criticava la tendenza antitecnologica di molti femminismi. «Io — raccontava – volevo riappropriarmi dei cyborg per permettere al femminismo di prosperare, e questo implicava una seria riflessione sul genere e i suoi apparati. Il genere come qualcosa che non è mai solo naturale o solo culturale, ma qualcosa di diverso, per cui non abbiamo parole».
Questa “cosa” che non sappiamo nominare dovrebbe dunque spezzare il canone, e lasciare che ciascuno faccia davvero del proprio corpo quel che vuole, che tagli o no i capelli dopo i cinquant’anni, che ingrassi o dimagrisca, che opti per il bisturi o meno. E che soprattutto faccia giustizia della sindrome di Alcina, secondo la quale la morte della bellezza giovanile viene considerata la morte del femminile, e la sostituisca, magari, con la sindrome di Karen Blixen, che a quarantasei anni lascia l’Africa per tornare in Danimarca, abbandonata dal marito infedele che le aveva trasmesso la sifilide e dall’amante, morto in un incidente aereo.
«La baronessa Blixen — scriveva Germaine Greer in “La seconda età della vita” — riuscì a superare l’intenso dolore fisico e mentale della crisi, un climaterio nel pieno senso della parola, rinascendo come Isak Dinesen. Isacco era il figlio postmenopausale di Abramo e Sara, che quando nacque disse: «Dio mi ha fatto per ridere, in modo che tutti coloro che mi sentiranno rideranno con me». Dinesen era il nome da ragazza della Blixen. Lei stessa definì questo periodo la quarta età, dicendo che aveva cominciato a scrivere «con grande incertezza sull’esito dell’impresa, ma tuttavia nelle mani di uno spirito potente e felice». Perché mai Madonna non dovrebbe essere, oltre che potente, felice?