Prima della guerra, un’italiana stava per firmare a Kiev un contratto di gestazione per altri. E davanti alle immagini più tragiche pensa all’ansia di chi aveva fatto la stessa scelta. Ma è empatia o insensibilità? Scriveteci cosa ne pensate

Cara Rossini, scrivo a lei dopo aver spento il televisore sulle macerie di nuovi bombardamenti e di nuove stragi in Ucraina. Sono immagini che guardo ossessivamente e mi coinvolgono in prima persona, le spiego perché.

 

Dopo anni di tentativi inutili, di aiuti medici e di esperimenti falliti, io e mio marito abbiamo alla fine accettato l’idea che non avremmo potuto avere figli. Per colpa mia, purtroppo, perché a quanto pare non sono in grado di portare avanti una gravidanza. Passati lo shock e il mio personale lutto nel venire a sapere che mai vivrò l’esperienza femminile per antonomasia, quella che sognavo fin da bambina anche nei giochi con le bambole, mio marito e io abbiamo iniziato a considerare, più come eventualità astratta che come scelta concreta, la fecondazione eterologa con una donna che poi non accampasse diritti e ci lasciasse vivere pienamente la nostra genitorialità: meglio di tutte un’estranea, una straniera che non avremmo rivisto mai più.

 

Durante le nostre ricerche, siamo venuti a sapere che proprio l’Ucraina, oggi teatro di questa inedita e atroce guerra, è, o perlomeno è stato, uno dei mercati più grandi per quanto riguarda la possibilità di trovare donne disposte a portare avanti una gravidanza per altri. Abbiamo contattato un’agenzia del luogo dato che lì questa pratica è legale e, poco prima dell’invasione di Putin, eravamo pronti a partire per realizzare il nostro sogno. Ma tutto è stato sconvolto dalla guerra. E ora, pensando a tutte quelle mamme e quei padri che aspettano con ansia il loro bambino, che forse sta crescendo dentro l’utero di una donna fuggita in chissà quale nazione e di cui hanno perso le tracce, per non voler immaginare che sia addirittura perita sotto le bombe russe, mi si stringe il cuore. Quella mamma sarei potuta essere io.

Barbara B.

 

A ognuno la sua guerra, signora Barbara. La sua è personale e intima, riguarda il conflitto tra le sue aspettative e le possibilità del suo corpo. Quella delle donne ucraine, che portino o meno in grembo il frutto di un amore o di un contratto, è terribilmente concreta ed esposta a pericoli mortali. Non voglio sottovalutare i suoi sentimenti, ma lì c’è la tragedia di un intero popolo, ci sono morti innocenti nelle case bombardate e nelle strade, ci sono cadaveri di donne, vecchi e bambini lasciati un po’ ovunque. Per non parlare dei soldati morti ammazzati, ventenni inconsapevoli votati al massacro. Tutte cose trasmesse ogni giorno quasi in diretta e alla cui visione è impossibile sottrarsi. Il fatto che lei riduca l’orrore di quegli scempi alla sorte di donne che per vincere la povertà stanno portando avanti una gravidanza a pagamento (circa duemila e cinquecento l’anno secondo una statistica locale) dà la misura della sua distanza dall’orrore. Che poi, in fondo, è la distanza di tutti noi, spettatori sicuri della propria immunità, pronti a giudicare e a prender partito senza eccessivi coinvolgimenti. Anche se non possiamo non sapere che madri surrogate e bambini nati su commissione sono ulteriori vittime innocenti di questa guerra scellerata. (Stefania Rossini)