Nel villaggio profughi di Puluja, al riparo dai raid di Donetsk, tra i prefabbricati donati dalla Polonia, dove vivono anziani e donne con i figli. «Siamo senza luce ma il silenzio è una benedizione». Il carbone scarseggia: il dilemma è scaldarsi o mangiare

Buio. La luce si spegne all’improvviso e la cucina del campo profughi di Puluja sprofonda nell’oscurità. Siamo alla periferia di Leopoli, in una delle strutture cittadine allestite per i rifugiati interni. Proprio qui incontriamo alcuni delle donne ucraine che sono scappate dalle città della linea del fronte. Alcune delle foto le scattiamo solo con la torcia dei telefoni e con Irina, che è in posa, si ride. Anche se, per la verità, di divertente c’è ben poco.

Mentre fuori la temperatura crolla velocemente sotto lo zero, dentro i termosifoni rilasciano le ultime calorie e poi ci si dovrà coprire almeno con tre coperte. «Io vengo da Selydove, cittadina dell’oblast di Donetsk», racconta Irina. «Sono scappata con i miei figli dopo che la nostra casa è stata bombardata. Abbiamo vissuto per giorni in uno scantinato e poi abbiamo deciso di venire a Leopoli, perché non ci sentivamo più al sicuro. I miei bambini di 6 e 10 anni hanno sviluppato una leggera sindrome da stress post traumatico e anche qui al campo, se sbatte una porta sussultano».

Ora Irina vive con i suoi tre bambini in un piccolo alloggio prefabbricato, dove c’è posto solo per un letto a castello, un armadietto e due sgabelli. Il bagno è fuori, così come la cucina e le docce. Anche per fare una pipì serve incappottarsi e uscire al gelo. «È una vita difficile», ammette Irina. «Speriamo di riuscire a sopravvivere a questo inverno, ma almeno non abbiamo bombe che ci cadono in testa. Il silenzio, a volte, è una benedizione».

 

Il campo profughi è gestito da Viktor, che ogni giorno coordina 250 persone, essenzialmente donne con bambini, anziani o persone con problemi di disabilità. «I moduli abitativi sono stati donati dalla Polonia e speriamo che nei prossimi mesi arrivino anche gli altri prefabbricati, che useremo per creare passaggi interni tra le varie zone». La disposizione del campo è complessa, perché l’insediamento è stato realizzato in mezzo a delle palazzine residenziali. Il problema però, è che il locale docce, il bagno, la zona lavatrici sono dislocate sono solo all’ingresso del campo, perché è lì che funziona il generatore principale.

«Qui dove siamo ora – racconta Viktor – la corrente c’è più a lungo che nel resto del campo. Ma poco in più. Solo un’ora. Perché non ci sono abbastanza soldi per la benzina. Una ora di generatore costa 50 dollari». Troppo per gestire fino a 12 ore di assenza di corrente elettrica. Perciò, si fa a meno di termosifoni, acqua calda, luce.

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Le lattine vuote di tonno, fagioli, pomodoro sono riempite con la cera per fare candele homemade, con la raccomandazione di badare a non incendiare qualcosa. Perché gli alloggi sono piccolissimi e sono zeppi di coperte, vestiti, giocattoli dei bambini. Come quello di Olexandra, che è fuggita da Kherson e ora vive in un metro quadro con tre bambini. Il più piccolo è nato proprio al campo profughi. «Qui ci sono persone scappate tra marzo e aprile dai luoghi più colpiti – dice Viktor - ma intanto continuano ad arrivare ospiti dalle città occupate o da altri villaggi, man mano che si sposta la linea del fronte. E non ci sono più posti liberi. “Attualmente, ci sono 280 persone nel campo di Cipric e 290 in quello di Cuxib”, aggiunge Viktor. La città è piena.

 

A Leopoli la popolazione è raddoppiata dallo scoppio della guerra e negli ultimi giorni la corrente manca sempre per più ore. L’inverno, ci dicono, sarà veramente duro. Quando va via la corrente, l’intera città scompare e nell’oscurità brilla solo qualche finestra illuminata, oppure s’accende il bagliore di candele e di camini. Anche il carbone è raro, troppo costoso e così molte famiglie sono costrette a decidere se scaldarsi o mangiare. In strada notiamo alcune persone che raccolgono rami caduti dagli alberi, tronchi dei parchi: li caricano nel portabagagli della macchina per usarli in casa per scaldarsi.

 

Alina, commessa in una caffetteria del centro di Leopoli racconta che molti, col buio, vanno con seghe e accette per abbattere interi alberi dei parchi della città. La disperazione vince sul senso civico. E allora, in alcuni punti della città, dalla sera alla mattina compaiono aiuole nude, con monconi di betulle, faggi e abeti. Leopoli si è trasformata nei mesi. La sua bellezza similasburgica si è appannata, con i sacchi di sabbia che coprono i monumenti e le finestre basse dei palazzi. Anche il teatro lirico, tetro e chiuso, è un po’ il simbolo di un Paese che aspetta, ma intanto resiste. «Se l’obiettivo dei russi, colpendo le centrali, è fiaccare gli ucraini col freddo e il buio, lo stanno fallendo». Vladimir è il coordinatore dei volontari cittadini che gestiscono accoglienza e quotidianità nel politecnico di Leopoli. Alcune delle strutture del campus sono state trasformate in centri di accoglienza e ospitano oltre 300 persone.

 

«Qui la corrente manca anche per 14 ore consecutive, perché non ci sono strutture ospedaliere nelle vicinanze e quindi ci sono meno generatori. È un grosso problema, soprattutto ora che la temperatura comincia a scendere di molti gradi sotto lo zero. Come si farà senza riscaldamenti? Senza generatori e senza benzina per accenderli?». Le domande cadono nel vuoto mentre il gruppetto di volontari si guarda negli occhi. Sono tutti universitari che da marzo alternano lezioni all’assistenza a questi concittadini. Ci sono tanti bambini e tante persone anziane fragili. «Io sto finendo gli ultimi due esami di psicologia - spiega Olga, 22 anni – dopodiché mi arruolerò nell’esercito. Voglio dare il mio contributo in questa guerra, la vita ora è questa qui».

 

Tra i letti sistemati sul parquet della palestra, giusto sotto il canestro della palestra del campus, incontriamo Yulia. «Sono grata a questi ragazzi per il loro aiuto e ringrazio Dio di essere viva, ma sto pensando di lasciare l’Ucraina, almeno per l’inverno», ammette la donna. «Mia figlia sta male e il freddo non le asciuga i polmoni. Perciò, credo che deciderò a breve se andare in Polonia, prima che faccia troppo freddo per muovermi. Ma non sono la sola… anche altri pensano questo, anche fuori dal campo». La sirena che avvisa di possibili bombardamenti suona spesso a Leopoli e dintorni, ma la gente ormai non si ferma, non alza più nemmeno lo sguardo al cielo. «Se dobbiamo morire, moriremo», dicono. Anche nel palazzo dove alloggiamo c’è il rifugio antiaereo, ma è chiuso con il catenaccio.

 

La tensione della guerra c’è e c’è il timore che arrivi qualche razzo improvvisamente, proprio come accaduto a fine novembre. A Solonka, villaggio dell’Oblast di Leopoli un missile è caduto proprio davanti a una casa e ha completamente distrutto il fienile. Ora la strada è stata rattoppata ma gli squarci nel tetto e nelle mura della struttura sono ancora ben visibili. Proprio davanti la villetta incontriamo i proprietari. «Ero in casa con mia figlia e mia nipote quando c’è stata l’esplosione», racconta la Ekateryna. «Fischiava tutto e sono andate in frantumi tutte le finestre ma davvero non potevamo credere che fosse stato un razzo, all’inizio non abbiamo ragionato. Ci siamo nascosti sotto il tavolo». La famiglia è rientrata dalla spesa settimanale e davanti al cancello ci mostra i segni dell’attacco. Sono passate settimane ma i vetri sono stati sistemati da poco, hanno ancora l’etichetta di fabbrica attaccata in alto. «Avete paura adesso?», chiediamo. Annuiscono quasi in sincrono. Non è la prima volta che in quella zona arrivano missili russi, ecco perché in tutte le campagne della zona, più che a Leopoli centro, la guerra si sente più vicina, più forte. Anche i disagi sono più evidenti. Nei negozi, infatti, mancano anche beni di prima necessità a volte, e i prezzi sono molto alti. Ecco perché spesso le famiglie ucraine preferiscono farsi mandare scorte da altri Paesi, dalla Polonia, certo, ma anche dall’Italia.

 

Negli ultimi mesi, ci raccontano, autobus e camioncini zeppi di provviste hanno raddoppiato i loro viaggi per far da spola alle famiglie separate. Il costo del servizio è alto. «Si arriva fino a 2,50 euro a kg di prodotto caricato – ci spiega Danyl – che è assurdo considerando che spesso ci mandano anche 20 kg tra pasta, riso, frutta in scatola, biscotti, patate». Ma quasi sempre è comunque più conveniente che comprare in Ucraina, soprattutto nei grandi supermercati.

 

 

Alla frontiera tra Polonia e Ucraina, in effetti, fino a tarda sera la fila di tir, furgoni e bus è lunga, mentre al passaggio per i passeggeri la fila è snella. Nonostante il freddo, ci sono molte persone che da Medyka, confine polacco, attraversano la frontiera a piedi, trascinando con sé valigie e sacconi di plastica. Ci sono anche dei bambini, stoici piccoli viaggiatori incappucciati che trascinano zainetti e peluche. I rifugiati portano con sé viveri e doni per le feste, per provare a trascorrerle con qualche comfort in più. È il primo Natale in guerra, per l’Ucraina e per molte persone sarà un incubo.

 

Secondo l’Oms, in tutto il Paese 10 milioni di persone sono senza elettricità e riscaldamento e inizieranno così anche il 2023. Anche sulla corsia opposta, dall’Ucraina alla Polonia, il passaggio della frontiera di Medyka è abbastanza corposo. Per scappare dall’inverno e dalle difficoltà del momento, il primo punto di arrivo è Przemyl. Fin dalla prima settimana di guerra, il mega supermercato della catena Tesco è stato sgomberato e riconvertito in centro di accoglienza, con migliaia di letti e assistenza per ogni esigenza. In quei giorni era il caos, con arrivi e partenze incontrollati e spazi super affollati.

 

Adesso, dopo dieci mesi di guerra, il governo cittadino di Przemyl, a pochi km da confine, ha deciso di non smantellarlo. Nonostante adesso all’interno ci siano poche persone. Ma il flusso non è sparito e anche mentre ci siamo noi all’interno, imbucati tra altri avventori, arriva un gruppo di persone. «Ci aspettiamo che possa improvvisamente intensificarsi il traffico - ci spiega uno dei coordinatori – per questo non è stato ridotto alcun spazio ed è ancora tutto funzionante». C’è chi va e chi viene. Una comitiva di rifugiati aspetta all’esterno che arrivi il bus per Hannover, mentre un’altra navetta sta arrivando, con ospiti che resteranno. Si passerà così le feste, accampati, insieme.