Il nostro Paese è assestato su questa media di vittime nei luoghi in cui si svolge il proprio mestiere. Perché nel decennio successivo alla crisi finanziaria del 2008 non ci sono stati investimenti nella prevenzione. E i dispositivi di sicurezza sono invecchiati. Sconfessando l’articolo 1 della Costituzione.

Ndiaye, 51 anni, è morto il 10 dicembre a Gatteo, nel Cesenate. Maurizio, 62 anni, è morto il 9 dicembre a Bedizzole, in provincia di Brescia. Angelo, anche lui 62 anni, è morto il 7 dicembre a Palermo. Sono tutti morti sul lavoro. E sono solo gli ultimi, nel momento in cui si scrive, in una lunga conta che ha già sfiorato quota mille nel 2022. Da troppo tempo, infatti, ci si è assestati su una media di tre vittime al giorno nei luoghi in cui ciascuno svolge il proprio mestiere. «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», proclama l’articolo 1 della Costituzione. Queste morti, allora, negano l’essenza stessa dello Stato.

LE VITTIME DEL LAVORO
Secondo l’ultima rilevazione compiuta dall’Inail, le denunce di infortuni mortali raccolte dal 1° gennaio al 31 ottobre scorsi sono state 909. Vale a dire 108 in meno rispetto al medesimo periodo del 2021, 127 in meno rispetto al 2020 e 13 in più rispetto al 2019. Se nel 2022 si è conquistato un decremento del 10,6 per cento sull’anno precedente, lo si deve al fatto che chi si è ammalato di Covid-19 contagiandosi per lavoro è riuscito più spesso a guarire. Una minore letalità del virus che ha ridotto i casi avvenuti in occasione di lavoro da 815 a 659. Resta pericoloso percorrere il tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e l’ufficio, la fabbrica o il cantiere: i casi in itinere sono passati da 202 a 250. I 16 incidenti che hanno coinvolto contemporaneamente più persone (per un totale di 37 decessi) sono tutti stradali.

Il calo riguarda, in particolare, i settori dell’industria e dei servizi; è più consistente al Sud, più contenuto al Nord-Ovest. A livello regionale, migliorano i dati di Campania, Abruzzo, Puglia, Lazio ed Emilia Romagna; peggiorano quelli di Calabria, Lombardia e Toscana. Diminuiscono le denunce per gli italiani, mentre aumentano per gli stranieri provenienti sia dall’Unione europea sia da altri Paesi. E ci sono altre tendenze da monitorare. Se è vero che sono morti meno uomini (806 contro i 922 del 2021), tra le donne le vittime salgono da 95 a 103. Non solo. Hanno perso la vita più persone di età compresa tra i 25 e i 39 anni (da 132 a 167) e sono raddoppiati da 10 a 20 gli incidenti mortali ai danni di chi non era ancora ventenne.

INFORTUNI IN AUMENTO
Ci sono, poi, gli infortuni. Nei primi dieci mesi dell’anno ne sono stati segnalati 595.569, ovvero il 32,9 per cento in più rispetto al corrispondente periodo del 2021 (più 41,3 per cento rispetto al 2020 e più 11,5 sul 2019). Con un incremento sia dei casi in itinere (73.422 contro 62.403) sia di quelli avvenuti in occasione di lavoro (passati da 385.707 a 522.147). Questi ultimi aumentano in generale in quasi tutti i comparti produttivi: spicca il 129,1 per cento in più nell’ambito della sanità e dell’assistenza sociale, così come il 102,9 per cento in più di trasporto e magazzinaggio. Non va bene nemmeno per l’Amministrazione pubblica e per le attività ricettive o di ristorazione. Dal punto di vista geografico, il peggioramento maggiore si registra al Sud e nelle isole. La crescita interessa le donne (da 159.524 a 246.162) e gli uomini (da 288.586 a 349.407), gli italiani e gli stranieri. E ogni fascia d’età, sebbene la più colpita sia quella tra i 40 e i 59 anni.

ANCHE LA SICUREZZA INVECCHIA
«Se si guarda al numero degli infortuni avvenuti in un anno ogni 100 mila lavoratori, in base alle statistiche pubblicate da Eurostat, ci si accorge che il nostro Paese si posiziona meglio di Francia, Germania, Spagna. Uno scenario che sorprende, certo, ma che non esime dal compito di risalire alle cause della triste media giornaliera», spiega Andrea Tardiola, direttore generale dell’Inail: «Gli incidenti, anche mortali, si sono dimezzati in confronto al passato; dal 2000 al 2012 sono progressivamente diminuiti. Poi la curva si è trasformata in un plateau. Perché? Probabilmente per la saturazione tecnologica dei dispositivi di sicurezza. Nel decennio successivo alla crisi finanziaria del 2008 non ci sono stati investimenti pubblici o privati nella prevenzione». Le protezioni, quindi, sono invecchiate. Perciò l’Istituto collabora con il Centro Studi della Banca d’Italia per incrociare le informazioni sull’andamento degli infortuni e sulle dinamiche che possono influenzarlo.

«Esistono due tipologie d’incidenti. Quelli che si perpetuano dai tempi in cui si costruivano le piramidi e quelli legati all’evoluzione della società», prosegue Tardiola: «Da un lato si continua a morire cadendo dall’alto, schiacciati da pesi o soffocati in ambienti chiusi; dall’altro, eventi come la pandemia o il cambiamento climatico ci pongono di fronte a rischi che non conosciamo. In edilizia o in agricoltura, per esempio, l’innalzamento delle temperature provoca seri problemi a chi sta sui ponteggi o nei campi. Nel settore dei servizi, invece, assistiamo alla smaterializzazione del luogo di lavoro: le persone sono attive sempre e ovunque, perciò bisogna puntare sulla loro preparazione più che sulla presenza di strumenti nel posto in cui si trovano».

Alla radice del divario, le caratteristiche del tessuto produttivo nostrano. «I grandi gruppi industriali considerano la sicurezza una voce d’investimento, fissano obiettivi stringenti per garantirla e sono convinti che sia inscindibile dalla competitività», dice il dg: «Al contrario, è faticoso controllare la miriade di piccole imprese spesso impermeabili alle tecnologie. Manca la consapevolezza dei pericoli, c’è un eccesso di confidenza che porta a sottovalutarli. E si percepisce la prevenzione come una mera incombenza burocratica, una seccatura. È responsabilità della parte pubblica chiedere più sostanza che forma. Dal canto nostro, incentiviamo queste realtà con bandi per finanziare l’acquisto di impianti all’avanguardia o sconti sui premi assicurativi».

Intanto, i fondi stanziati con il Pnrr hanno generato il proliferare di opere e cantieri. Una ripresa dai ritmi serrati: «La velocità è antagonista della cautela», ammette Tardiola, «è necessario stabilire più turni con più manodopera, perché caricare le persone di straordinari è un azzardo. Tra qualche anno capiremo se, nonostante l’aumento delle ore lavorate, l’indice infortunistico sia stato compensato dal rinnovamento di macchinari e attrezzature. Il Piano deve lasciare in eredità anche una solida infrastruttura di sicurezza».

UN MERCATO MALATO
La situazione, però, non è rassicurante. Emblematico è il caso della Lombardia, descritta come locomotiva d’Italia. «La ripartenza qui sta provocando conseguenze drammatiche. I lavoratori si espongono a rischi troppo elevati perché non sono addestrati in maniera adeguata e, soprattutto, perché subiscono pressioni a fare in fretta e a costo minimo. Se vogliamo essere davvero efficienti, cominciamo a fare in modo che la gente non muoia sul posto di lavoro», avverte Massimo Balzarini, della segreteria regionale della Cgil. È lui a evidenziare quanto la prevenzione sia conveniente: tra cure, riabilitazione, pensioni d’invalidità e risarcimenti, l’impatto economico degli incidenti è enorme.

«C’è un problema politico. I contratti precari e le partite Iva che hanno invaso il mercato del lavoro creano discontinuità nell’impiego e rendono impossibile monitorare i percorsi di formazione sulla sicurezza, demandati all’iniziativa dei singoli. Avevamo presentato delle proposte al governo precedente, adesso il dialogo è sospeso. Ma ribadiamo le richieste: un tavolo interministeriale per coordinare le istituzioni competenti sul tema, una patente per certificare le aziende che partecipano alle gare pubbliche, l’introduzione della fattispecie di omicidio sul luogo di lavoro. Ricordiamo, poi, che l’autonomia differenziata delle Regioni non può incidere su standard che hanno senso solo se nazionali».

A CHI SPETTA LA VIGILANZA
Su un punto tutti sembrano d’accordo: la sicurezza è una questione culturale. Dove la persuasione e l’educazione falliscono, però, devono arrivare controlli e sanzioni. Nel corso del 2021, l’attività dell’Ispettorato nazionale del Lavoro ha riguardato 13.924 aziende: quelle a cui sono stati contestati illeciti proprio in materia di salute e sicurezza sono 10.278, su un totale di 13.348 accertamenti portati a termine. In pratica, quasi otto imprese su dieci sono risultate irregolari. Mentre gli illeciti riscontrati ammontano a 17.511, di carattere penale nel 90,92 per cento dei casi e di natura amministrativa per il resto.

«Le regole ci sono, è fondamentale verificare che vengano rispettate. Oltre a intercettare le violazioni, infatti, la vigilanza funziona da deterrente. Ma perde di efficacia, se non è esercitata in maniera capillare e costante. In questo non aiuta la carenza di personale che affligge l’Amministrazione pubblica, anche per il blocco del turnover», nota Ester Rotoli, direttore centrale Prevenzione dell’Inail. In effetti, con 4.020 dipendenti complessivi, l’Ispettorato non può essere onnipresente. Motivo per cui l’ex ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha disposto il rafforzamento del suo organico in misura pari al 65 per cento. Ci vorrà tempo perché le forze fresche entrino in ruolo, mentre da poco più di un anno i compiti di vigilanza dell’ente sono stati estesi dal settore edile agli altri ambiti produttivi finora coperti dalle Asl.

«La carriera dell’ispettore non è allettante, come non lo sono quelle dei medici del lavoro e dei tecnici della prevenzione», commenta il sindacalista Balzarini: «A proposito di quest’ultima figura, da destinare sia ai controlli sia alla formazione nei luoghi di lavoro, abbiamo chiesto un confronto con le università per la programmazione di corsi ad hoc. Ma ci sono meno candidati dei posti messi a disposizione».

FORMARE I GIOVANI
Un quadro a tinte fosche, in cui finiscono pure i giovani in veste di stagisti o tirocinanti. «Sono loro che affronteranno fenomeni nuovi. Perciò dobbiamo aggiornare la formazione obbligatoria prevista per gli studenti impegnati nella cosiddetta alternanza scuola-lavoro. Un sfida che può essere vinta solo utilizzando mezzi o linguaggi vicini ai ragazzi e alle ragazze», conclude Tardiola dell’Inail. E sperimentazioni sono in corso. Come il progetto realizzato con l’Itis Galilei di Roma, dove gli alunni applicano le loro conoscenze allo sviluppo di videogame incentrati sul tema della prevenzione, o come la ricerca dell’Istituto italiano di Tecnologia di Genova che analizza il modo in cui i visori per la realtà virtuale immersiva possono modificare i comportamenti di chi li indossa.

Lo scorso maggio il ministero del Lavoro, quello dell’Istruzione, l’Ispettorato e l’Inail hanno firmato un protocollo d’intesa di durata triennale per la promozione e la diffusione della cultura della sicurezza tra i dirigenti scolastici, i docenti, gli studenti e tutti i soggetti coinvolti nei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento. D’altra parte, il Pnrr assegna fondi alle Regioni per la formazione professionale e spinge nella direzione di un’osmosi crescente tra scuola e mondo del lavoro. Diventa sempre più urgente tutelare chi ha meno strumenti per proteggersi da sé.