Il loro habitat è il Parco dell’Aveto, ma si spingono a ridosso dei paesi. Un’attrattiva per i turisti, un pericolo per residenti e per gli agricoltori. L’ok della Regione alla cattura di sette esemplari ha fatto insorgere gli ambientalisti

D’inverno è più facile incontrarli, perché, quando la tramontana trasforma i crinali in lande gelate, loro scendono a valle. D’estate è più dura, perché si arrampicano al fresco in cima ai monti, su radure disabitate. Ma questa regola non è infallibile: perché tra i cavalli selvaggi della Liguria, un centinaio di bestie che popolano i monti intorno al Parco dell’Aveto, alcuni esemplari si avvicinano sempre più spesso ai paesi nell’entroterra di Chiavari.

 

Un’emozione per chi si spinge in questa zona remota della provincia di Genova, una fatica per chi in questa zona vive e si ritrova i cavalli nell’orto o in mezzo alla strada. Dopo anni di proteste degenerate nel bracconaggio, liti tra compaesani e ombre di macellazioni clandestine, la situazione si era tranquillizzata. Ma la tensione è tornata alle stelle: a fine ottobre sette animali sono stati catturati con l’ok della Regione Liguria, per essere trasferiti. Gli animalisti sono insorti, i naturalisti pure. E così i cavalli sono stati nuovamente liberati, spezzando la valle tra chi esulta e chi è inferocito.

 

«Sono una meraviglia», «levano il fiato», «sembrano un sogno», ripetono gli amanti della natura, gli escursionisti e le famiglie che salgono al Lago di Giacopiane, mille metri sul livello del mare, dove è facile avvistare i branchi che si abbeverano, brucano sui pendii e si rincorrono sui prati. Un tipo di poesia non gradita a molti abitanti di Borzonasca, paesone con case a ridosso dei boschi da cui spuntano gli equini più avventurieri.

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«Questi cavalli sono amati da chi vive in città, viene qui per fare le foto e poi se ne torna a casa», sbotta Davide Gazzolo, che ha messo in piedi un comitato per chiedere che i cavalli vengano recintati sopra al Lago di Giacopiane. «Mica vogliamo mandarli al macello», assicura. «Ma qui c’è chi vuol fare passare dei cavalli bardigiani come fossero selvaggi cavalli del Wyoming, quando sappiamo tutti bene da dove arrivano».

 

I cavalli selvaggi dell’Aveto hanno infatti un nome che sa di leggenda, ma in realtà sono una storia recente. A Borzonasca in tanti ricordano “Giò”, quel signore che ogni estate, come tanti altri, lasciava le sue bestie libere di pascolare alle pendici del Monte Aiona. Negli anni ’90 Giò divenne troppo anziano e i suoi cavalli rimasero in cima al monte. Quando comparirono i primi branchi in valle Sturla e val Penna, l’entusiasmo durò poco: nel 2009 due cavalli furono ammazzati a fucilate. Le amministrazioni decisero così di dare gli esemplari liberi in adozione, ma molti di loro dopo la cattura morirono e il progetto fallì. All’allora presidente ligure della Federazione italiana turismo equestre, Paola Marinari, venne un’intuizione: per i cavalli e il territorio poteva esserci un futuro di turismo sostenibile.

 

Con il supporto della naturalista genovese Evelina Isola sono così nate le escursioni di osservazione e monitoraggio dei branchi, affiancate alla ricerca su habitat e biodiversità. «Avere dei cavalli inselvatichiti consente di studiare i loro comportamenti come animali “selvatici” e non destinati al lavoro con l’uomo», spiega la naturalista Isola, che con il progetto “Wild Horse Watching – I Cavalli Selvaggi dell’Aveto” dell’associazione ReWild Liguria ha attirato quasi duemila visitatori in dieci anni. Il cavallo che conosciamo è infatti il cavallo domestico, addomesticato dall’uomo tra il diecimila e il cinquemila a.C., il cavallo selvatico è invece scomparso: l’ultima specie - il tarpan o cavallo euroasiatico – si è estinto in uno zoo nel 1918. «I cavalli inselvatichiti, spesso chiamati “selvaggi” – continua Isola – sono invece cavalli che vivono da poche generazioni in natura senza contatti con l’uomo, i cui antenati erano cavalli domestici».

 

Nella zona dell’Aveto, in un territorio di 33km quadrati, i ricercatori delle Università di Genova e Parma calcolano un centinaio di cavalli divisi in 11 branchi, che hanno attirato interesse accademico in vari campi. Da qui è nato un progetto dell’Istituto zooprofilattico sperimentale di Liguria-Piemonte-Valle d’Aosta. «Le popolazioni note di cavalli inselvatichiti sono pochissime, esistono in Polonia, in Australia, in Canada, negli Stati Uniti. Il cavallo è un bene economico e ovviamente non viene lasciato fuggire», spiega il professor Marco Genchi, docente di Parassitologia e malattie parassitarie dell’Università di Parma. «Quelli dell’Aveto sono qualcosa di unico: per questo sono interessantissimi da studiare».

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In questi monti disseminati di cacciatori c’è però scetticismo sulla loro valenza scientifica, e bastano due chiacchiere nei bar per rendersi conto di come molti risolverebbero il problema: con le bestie trasformate in bistecche. Dopo anni di lamentele rivolte al sindaco di Borzonasca, a fine ottobre sette cavalli sono stati catturati dal Comune con l’autorità sanitaria locale. «Poco hanno questi cavalli di selvaggio», ha spiegato il vicepresidente della Regione Liguria, Alessandro Piana, per cui quella dozzina di cavalli abituati a vagare tra le case e sulle strade senza paura dell’uomo «rappresentano un costante pericolo per l’incolumità pubblica». La pensa così anche Andrea Marsan, biologo della fauna selvatica, a lungo docente dell’Università di Genova. «Il problema è che ormai trattiamo il cavallo come fosse sacro, dimenticandoci che è un animale domestico destinato al lavoro o al macello».

 

E forse è anche per questo che non è stato possibile per la Regione trasferire i sette cavalli a un allevatore in alta quota, pur con l’accordo che non venissero macellati. Si è scatenato il putiferio con la mobilitazione lanciata da ReWild Liguria, supportata da un variegato mondo animalista che dall’associazione Meta Parma è arrivato alla deputata Michela Vittoria Brambilla. La Regione ha così cambiato idea: i cavalli sono stati microchippati e liberati nel Parco dell’Aveto, con la promessa del presidente Giovanni Toti di trovare le risorse per «garantire la gestione, il mantenimento, il monitoraggio e anche la valorizzazione dei cavalli dell’Aveto come elemento di attrazione turistica e di biodiversità».

 

L’intervento regionale è necessario poiché i cavalli sono considerati «animali da reddito agricolo», ma quelli dell’Aveto non avendo un proprietario risultano vaganti e quindi i costi ricadono sui sindaci. Non possono essere considerati patrimonio dello Stato (come i cinghiali, i cui costi ricadono sulle Regioni) perché non sono fauna selvatica: lo status di animale domestico inselvatichito li pone tra le due categorie. «Ogni volta che un’auto investe un cavallo tocca a me chiamare il veterinario e pagare lo smaltimento della carcassa», conferma Giuseppe Maschio, sindaco di Borzonasca. «E gli abitanti sono esasperati perché devono pagare di tasca loro perdite e danni». È quello che ripete Patrizia Ferretti, 65 anni, che nella sua casa a ridosso del bosco in località Perlezzi si ritrova i cavalli in giardino. «Distruggono i funghi, mangiano le castagne e le piantine delle faggete».

 

Questi problemi sono noti all’associazione ReWild Liguria, che a Borzonasca ha creato una rete di ristoratori frequentati dagli escursionisti ma deve fare i conti con la frangia più intransigente di abitanti, che l’accusa «di inventarsi l’inselvatichimento» delle bestie per organizzare le escursioni. «I cavalli non devono certo stare in strada», ripete la naturalista Evelina Isola, che preme da tempo affinché lo status dei cavalli sia regolamentato e si è resa disponibile ad aiutare le amministrazioni nel trasferimento ad alta quota dei cavalli che scendono tra le case.

 

«Ci sentiamo ripetere che i cavalli selvaggi dell’Aveto sono animali domestici, ma negare la loro esistenza non risolve il problema», spiega Isola. «Bisogna guardare la realtà, gli ultimi cavalli selvaggi in Europa risalgono alle pitture rupestri. Dopo millenni nella zona dell’Aveto si sono ricreate le condizioni affinché alcuni branchi vivano liberi in natura. Sono una risorsa per la montagna, un patrimonio unico. Per questo li dobbiamo studiare e difendere».