La Guardia di finanza ha eseguito una confisca da sette milioni di euro a due imprenditori considerati contigui al clan del casalesi e che hanno ricevuto commesse mai realizzate. Tra i regali fatti al braccio destro del boss anche un cavallo

Una indagine che inizia nell’ufficio di un funzionario dell’Asl3 di Napoli e finisce in case di lusso e appartamenti in Toscana. In mezzo ci sarebbe il clan di Michele Zagaria e dei suoi amici. L’ufficio delle misure di prevenzione del Tribunale di Firenze ha messo la parola fine, da un punto di vista finanziario, a una inchiesta che va avanti dal 2015 e che ha scoperchiato gli appalti illegittimi nell’ambito della sanità a Napoli grazie a un funzionario che sarebbe stato corrotto, Sebastiano Donnarumma, attualmente sotto processo.

 

Quest’ultimo avrebbe fatto avere appalti sotto soglia per un totale di 4 milioni di euro alle imprese di fatto amministrate da Feliciano Piccolo e dalla moglie Giovanna Corvino. Ma proprio quello che sarebbe emerso durante il processo in corso e dalla indagine economica della Guardia di finanza di Lucca ha portato prima al sequestro e adesso alla confisca dei beni della famiglia Feliciano. Fondamentali sono state sia le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Misso, che ha «riconosciuto Feliciano Piccolo come persona vicina a Michele Zagaria», sia quelle di Michele Barone, appartenente al clan Zagaria e braccio destro del boss, che ha riferito dei numerosi contati avuti con Piccolo, che gli ha regalato anche un cavallo perché «gli faceva piacere», anche se poi ha parlato agli inquirenti di una sorta di «dazione esorta». Ma le relazioni nel clan si costruiscono anche così, con regali graditi o richiesti con insistenza.

 

L’avventura di Piccolo con l’Asl Napoli 3 inizia nel 2013 e finisce nel 2018, quando interrogato ammette che «tutti gli appalti riconducibili alla famiglia sono riconducibili a me e all’accordo con il Donnarumma». Piccolo ha detto che «Donnarumma pretendeva una percentuale variata nel tempo con l’intesa che i lavori non sarebbero stati svolti e quindi l’appalto era a costo zero». L’imprenditore spiega la truffa ai danni della sanità campana: «Di tutti gli appalti avuti solo quattro o cinque lavori li abbiamo realizzati. Tutto il resto mai realizzato pur facendo figurare come se fossero eseguiti. Su un cantiere di 120 mila euro facevi 5 mila euro di lavoro, era una cosa fittizia».  Le società che ricevevano gli appalti, e che poco dopo chiudevano, erano intestate anche alla suocera e al cognato: insomma una rete familiare solida. 

 

Il meccanismo della corruzione non prevedeva dazioni di denaro. Dice Piccolo: «Per pagargli quanto chiedeva non avrei dovuto versare contanti, ma gli avrei ristrutturato immobili di sua proprietà o venduto altri immobili a prezzo inferiore a quello reale».

 

Di certo c’è che per la Guardia di finanza di Lucca i proventi illeciti fatti dalla famiglia Piccolo sono stati poi reinvestiti in società immobiliari a Lucca e una diversi di appartamenti tra la Toscana e la Campania. Sono stati adesso confiscati 26 conti correnti, otto società, 18 locali commerciali e ben trentadue abitazioni. Un piccolo tesoro valutato in 7 milioni di euro. Il processo per corruzione e criminalità organizzata è invece ancora in corso.