A sud il quadrilatero popolare dove proliferano lo spaccio e le occupazioni di case. A nord l’impianto sportivo e il silenzio di una zona residenziale di elite. In attesa della nuova struttura che rischia di accentuare le disuguaglianze

In via Zamagna 4, quartiere San Siro, periferia ovest di Milano, frecce nere sull’asfalto indicano dove comprare una dose. I muri delle case popolari cadono a pezzi. Una ha la facciata scura, bruciata. Un incendio dello scorso agosto ha lasciato i residenti senza acqua e luce per settimane, ma i servizi ancora non funzionano.

 

C’è un ragazzo alto, tatuaggi in testa e lungo le braccia. È omosessuale. Lui e il suo compagno sono stati picchiati già tre volte, e ora quando deve fare la spesa ha paura. Una signora sta urlando contro Pierfrancesco Maran e Marco Granelli. Dice che il sindaco Beppe Sala li ha abbandonati. Gli assessori, delega alla Casa e alla Sicurezza, rimangono attoniti. Intanto, sulla via, un’Audi Coupé segue i loro passi. I due in macchina hanno una telecamera in mano. Sono le vedette che controllano il territorio, che alle istituzioni rispondono filmando, per dimostrare che lì, in via Zamagna, comandano loro. 

 

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A un solo chilometro di distanza, lo stadio Meazza. Lo scorso novembre, dopo mesi di scontro politico, è stata approvata dalla giunta milanese la delibera di pubblico interesse per la costruzione di un nuovo impianto e accanto un distretto multifunzionale, finanziato da Inter e Milan e dal valore di 1,2 miliardi di euro. Pochi giorni fa è stata ufficializzata la scelta di affidarne la costruzione allo studio di progettazione Populus. Ma in molti hanno sollevato dubbi, in primis per l’eccessivo decisionismo del sindaco Sala, che non avrebbe coinvolto il Consiglio Comunale.

 

«Si tratta di un’operazione finanziaria più ampia a favore delle società cinesi e americane proprietarie di Inter e Milan, Suning ed Elliot», lamenta Giammarco Brenelli, avvocato e membro del Comitato Sì Meazza. «Società che fanno i loro interessi. Non quelli dei tifosi, né degli abitanti della parte popolare». Che beneficerà di 30 milioni di oneri di urbanizzazione. Comunque non abbastanza. «Quanti sono su un miliardo di investimento? Ne servirebbero minimo 100», sostiene Federico Bottelli, presidente della Commissione Casa del Consiglio comunale, mentre beve un caffè al bar di piazza Segesta.

 

A pranzo il locale offre gallette e crepê ai ragazzi francesi del “Lycée Stendhal”. Jeans a zampa, pellicce e sneaker alla moda. Sono i figli della San Siro borghese. Ma entra anche Imad, 71 anni, egiziano, esiliato dal suo paese. La sera prima, alcuni spacciatori non volevano farlo rientrare a casa.

 

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Il piazzale segna un confine. Un muro invisibile che divide due anime dello stesso quartiere. A sud c’è il quadrilatero, povero e popolare, a nord lo stadio e il silenzio di una zona residenziale. A 100 metri dai palazzi Aler, da spaccio e abusivismo, spuntano case rosse, a più piani, che sfumano nei colori dell’autunno. Quel silenzio si fa sempre più rumoroso tanto più si avvicina a disagio e povertà. Li rende impercettibili anche ai residenti: «A sud si parla di gente accoltellata, ma qui sono tranquillo». Matteo, 25 anni, passeggia con il cane in via degli Odescalchi. Intanto davanti alla torre di piazza Selinunte, alcuni rom hanno steso teli per terra e stanno vendendo di tutto.

 

Scarpe, occhiali, pentole. Di fronte a quello che un tempo era il mercato comunale. «Io quel confine non l’ho mai superato». Antonio, tuta aderente e fiato corto, corre davanti all’ex ippodromo. «Lo vedi quell’attico lì? Ci abitava Icardi». Tra le case di calciatori, dj e cantanti, ha deciso di investire il gigante immobiliare Hines con un nuovo centro residenziale, dove vorrebbero costruire l’impianto da padel più grande d’Italia. Al posto delle ex scuderie arriverà un centro termale di lusso.

 

«Sono contento di questo sviluppo, renderà il quartiere più attrattivo». E l’altro lato di piazza Segesta? Matteo allarga le braccia: «Non ci posso fare niente, mi dispiace per loro».

 

«La vedi questa cicatrice?». Maria, vestito nero e voce spezzata, si indica la fronte. «Un uomo aveva occupato una casa nel mio condominio e non voleva pagare l’elettricità. Quando mi sono lamentata, ho rimediato otto punti in testa». Secondo i dati della Prefettura, su seimila alloggi popolari si contano oltre 800 occupazioni abusive, anche se qualcuno è sicuro siano più di duemila. C’è un racket vero e proprio, portato avanti dalla malavita locale: tremila euro in cambio di un tetto sulla testa. Al Comitato di quartiere la questione è all’ordine del giorno. Alessandro è un ex dirigente Aler ormai in pensione, che per anni ha fatto i conti con l’abusivismo delle popolari. «Spacciatori sì, ma anche famiglie che non sapevano dove andare. Dietro però c’è gente pericolosa. Anni fa hanno sparato in bocca a un mio collega».

 

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In un cortile di via Mar Jonio un signore, viso scavato e fasciatura sul braccio, fuma con la mano tremante. La sigaretta diventa una colonna di cenere che cade sul pile nero e sgualcito, ma lui non ci fa caso. La sera, insieme a un suo amico, affitta il suo appartamento a delle prostitute straniere in cambio di una dose di eroina. L’amico aveva un cane e la sua ultima notte, all’ultima overdose fatale, lo ha lasciato ad abbaiare solo. «Una volta non era così. Ora i nostri figli scappano dal quartiere, troppa criminalità». Causata, secondo due residenti storici, da un’integrazione mancata. Oggi gli abitanti di origine straniera sono oltre il 50 per cento della popolazione, divisi in 85 etnie.

 

Alla scuola di via Paravia non ci sono italiani. Sulla stessa strada, da una parrocchia arriva un vocio di ragazzi, i più tra i 12 e i 14 anni. «Vivono per strada perché i genitori sono assenti, o li hanno persi. Cerchiamo di dar loro spazi educativi e momenti di studio». Don Fabio è il responsabile dell’oratorio che ospita 56 giovani, di cui solo cinque italiani, e offre supporto alimentare a 170 famiglie.

 

«L’obiettivo principale», racconta Michele, educatore col sogno del giornalismo, «è sradicare la convinzione che il successo nella vita si conquisti ai danni dell’altro». Un compito non facile, se si conosce la loro storia. Alcuni, nemmeno adolescenti, parlano di cocaina come fossero esperti. Un ragazzo sfreccia su una mountain bike, nella sua vita ha già assistito a tre suicidi.

 

«La malavita l’hanno respirata in quartiere. Sono cresciuti in una giungla di illegalità, ma restano affezionati alla zona». Don Claudio Burgio svolge il ruolo di cappellano al carcere minorile Beccaria. Fondatore della comunità “Kayròs”, accoglie minori dagli istituti penitenziari per rieducarli attraverso servizi sociali. Nel 2021, dal Municipio VII, ne sono arrivati oltre 70. La rieducazione passa anche per le sedi di quelle istituzioni che per tanti anni hanno visto come nemiche. Ad aprile scorso l’incontro con Sala, organizzato da Don Burgio, dove Rondo da Sosa, sulle spalle un Daspo da Milano per rissa, e Sacky, un passato in carcere per rapina, hanno raccontato il proprio quartiere. I due sono membri di spicco della crew di rapper Seven7oo, idoli dei giovani di San Siro, per i quali hanno chiesto spazi di aggregazione. Così che chi cresce per quelle strade non debba rifugiarsi nella giungla.

 

Il sindaco Sala, raccontano fonti interne al Comune, sbatte i pugni sul tavolo quando si rende conto che la gentrificazione a Milano è difficile da controllare, e che una parte della popolazione rimane indietro. La zona sette è laboratorio potenziale di quello che è già successo in altri quartieri come Isola, City Life e NoLo, che servizi, nuovi immobili e aumento dei prezzi d’affitto hanno trasformato da popolari in esclusivi. «Il risultato sarà un incremento della disuguaglianza», afferma Paolo Natale, docente di sociologia alla Statale di Milano.

 

Secondo una sua ricerca, a nord il livello di soddisfazione per la qualità della vita è superiore all’80 per cento; nella zona Selinunte si riduce di quasi 30 punti, uno dei tassi più bassi dell’intera città. «Sembra ci siano residenti di serie b, non considerati e non coinvolti».

 

«La sfida più importante qui è proprio questa: coinvolgere i residenti», commenta Bottelli. «L’interesse pubblico del nuovo stadio si può tradurre in nuove fognature, impianti elettrici, centri sportivi, verde. Ma serve una pianificazione che parta dal basso, per non sprecare anche gli altri fondi». Si tratta di 21 milioni dal Ministero delle Infrastrutture con cui rimettere a posto un ex asilo, abbandonato da oltre 30 anni, e una struttura Aler da trasformare in nuovi posti letto.

 

Il problema però è anche politico. Una giunta regionale di destra dovrebbe intervenire in un Comune di sinistra, per poi regalargli il merito. Sconveniente, mormorano a Palazzo Marino. «Il Comune non può riqualificare le case Aler perché di proprietà della Regione, la Regione non interviene nella sicurezza delle stesse perché di competenza del Prefetto» spiega il consigliere.

 

Per un obiettivo comune lavora l’assessore Marco Granelli che ha firmato un protocollo sicurezza con Aler e Prefettura per favorire gli sgomberi. «Non riusciremo a risolvere tutto subito, magari però dal dieci per cento di case sgomberate riusciremo ad arrivare a 80». Ma mentre l’assessore parla, dalla Coupé continuano a filmare.